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PoesieRacconti.it


venerdì 12 agosto 2011

Oltre il giardino...realtà e surrealtà

http://www.film.tv.it/imgbank/LOC/OL/00731902.JPG




FOTOGRAFIA: Caleb Deschanel
MONTAGGIO: Don Zimmerman
MUSICHE: Johnny Mandel
PRODUZIONE:  
ANDREW BRAUNSBERG PER BSB, CIP, ENIGMA, FUJISANKEI, LORIMAR FILM ENTERTAINMENT, NATWEST VENTURES, NORTHSTAR
DISTRIBUZIONE:  
GOLD PEC (1980)
PAESE:  
Germania, Gran Bretagna, Giappone, USA 1979 
GENERE:
Commedia, Drammatico
    DURATA:   
130 Min
FORMATO:
Colore 35 MM, PANAFLEX, TECHNICOLOR
Soggetto:
ROMANZO "PRESENZE" DI JERZY KOSINSKI

 

Trama


L'analfabeta Chance (la sua sola fonte d'istruzione è la TV), ha passato tutta la vita facendo il giardiniere in una casa di Washington. Alla morte del padrone egli, che ha ormai cinquant'anni, ma l'età mentale di un bambino, si vede costretto a sloggiare. Mentre vaga per le strade viene urtato dall'auto di una ricchissima signora. Eve O'Brien. Colpita dalla sua aria di distinto gentiluomo, e preoccupata forse più di quanto meriterebbe l'incidente, la donna si porta Chance in casa, per farlo curare dal medico di famiglia. Il morente marito di Eve, Ben O'Brien - un uomo ancora potente, amico personale del Presidente degli Stati Uniti - è così impressionato dall'aura di riservatezza che circonda il suo ospite, da attribuirgli doti che egli davvero non ha. Scambiato per un uomo di profonde intuizioni, mentre è un semplice di spirito, e confusa la sua goffaggine con il "sense of humour", Chance, di cui Eve si è addirittura innamorata, viene presentato al Presidente. Il colloquio tra i due - in cui i continui riferimenti di Chance al giardinaggio, cioè alla sola cosa che conosca davvero, passano per acute metafore sulla conduzione dello Stato - sconcerta il Presidente, che si affanna a ordinare inchieste riservate su quell'uomo di cui non aveva mai sentito parlare. Le indagini dell'FBI e della CIA non rivelano nulla sul conto di Chance, che intanto, però, intervistato dalla stampa e dalla TV, è diventato una celebrità nazionale. Lo è a tal punto che, quando Ben muore, i suoi amici progettano di candidare Chance alla presidenza degli Stati Uniti.

 

Note

- COLLABORAZIONE NON ACCREDITATA ALLA SCENEGGIATURA: ROBERT C. JONES.
- OSCAR 1980 A MELVYN DOUGLAS COME MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA.
- GOLDEN GLOBE 1980 A PETER SELLERS COME MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA
  A MELVYN DOUGLAS COME MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA.

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Critica:

"Decisiva la forza del romanzo di Jerzy Kosinski ("Presenze", tra poco tradotto per il mercato italiano. Lo scrittore d'origine polacca deve la sua popolarità a numerosi premi letterari - tra cui il National Boock Award - ma soprattutto ad una vita privata assai tormentosa. Fuggito dalla patria nel 1957 (non prima di essere rimasto muto dai nove ai quattordici anni e di aver ritrovato la parola grazie allo shoch di un incidente di sci), avventurosamente si è fatto strada in America ("L'uccello dipinto" è per molti americanisti uno del più bei romanzi del dopoguerra). Amico intimo di Polanski era atteso nella villa di Beverly Hijls la notte in cui massacrarono Sharon Tate: si salva per aver perso una coincidenza aerea. Sarà per questo che i critici americani amano definirlo "Crudele, ironico, palpitante, stranamente perverso ma estremamente morale." AI penultimo titolo (segue soltanto un "Dottor Fu-Manchu", inedito), Peter Sellers consegnò il sigillo più adamantino della sua bravura. II mediocre regista Ashby (che è soprattutto un buon montatore) tocca lo stato di grazia proprio per la sua indimenticabile "performance". Sellers è uno Chance folgorante mattatore di espressioni e di movimenti di mimiche facciali (rarefatte in sorrisi enigmatici) e di camminate tranquille e solenni. Ogni sequenza gode di un retrogusto, struggente, perché l'attore inserisce nell'ebetudine del giardiniere un "quid" inesprimibile di profondità parla come un saggio zen, mentre il volto gli si illumina a furia di lavoratissime "inespressività" degne di Keaton. L'acme di questa prestazione sublime è nel finale: il magnate è morto; l'Ufficialità decreta gli onori funebri, i politici pensano a Chance come possibile successore. Ma a lui basta sapere che non lo cacceranno, che potrà restarsene radicato negli stessi luoghi come una pianta: che camminerà sull'acqua da profeta disarmato come sta già provando a fare. (Valerio Caprara "Il Mattino")"Tutto amabilissimo. E in molti casi francamente spassoso. La sceneggiatura, dello stesso Kosinski, perde un po' per strada, subito dopo l'avvio, la beffa ai danni della televisione, ma il film, procedendo, non tarda a dare spazio alla beffa politica con un gusto colorito ed astuto, giocando su una ridda di contrattempi e di equivoci che anche se, come meccanismi e strutture sono quelle delle vecchie commedie, sono rispolverati ad ogni passo da un brio, da una freschezza di trovate, e soprattutto, da una malizia di dialoghi, sempre godibili e ghiotti, con accenti a volte così stralunati e sospesi da sfiorare per un verso il surreale e da ricordare, per un altro verso, le analoghe atmosfere in equilibrio tra la favola e l'apologo dei film "politici" di Frank Capra. Certo, qua e là nel racconto ci sono dei momenti un po' stanchi che rasentano specie all'inizio, i tempi morti, ma la regia di Hal Ashby riesce spesso a superarli oltre che con una innegabile disinvoltura narrativa, con delle cure molto attente nei confronti della recitazione, portata in tutti gli interpreti a livelli così esemplari che il vecchio Melvyn Douglas, per la sua caratterizzazione del magnate moribondo, si è visto addirittura attribuire ad aprile l'Oscar per il miglior attore non protagonista. Quello per il protagonista, pur meritandolo, non lo ha avuto il compianto Peter Sellers, nei panni del giardiniere così come, pur meritandola non ha avuto la Palma a Cannes. La sua interpretazione, invece, penultima della sua carriera, era un prodigio di sottigliezza e, contemporaneamente, di distacco, soprattutto nella versione originale in cui si faceva sorreggere, con finissima furbizia, da una voce quasi senza toni, omofona, priva di echi, che gli consentiva di ricamare le battute senza mai accentuarle, collegandole ad una gestualità contenuta, misurata, ai limiti dell'astratto. 
fonte "RdC - Cinematografo.it"

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I discorsi di Chance sul giardinaggio (unica cosa di cui egli è in grado di parlare) verranno accolti come profonde metafore filosofiche sul senso della vita e sulla gestione politica degli Stati Uniti – riprendendo, in chiave grottesca, il dialogo di un floricoltore del Riccardo III di William Shakespeare, il quale paragonava la professione della politica alla pratica del giardinaggio attraverso metafore.
Oltre il giardino è una amara e, al tempo stesso, esilarante rappresentazione della nuova società apolide, nutrita di frasi fatte e televisione, in cui il problema dell’incomunicabilità sembra aver perduto la sua importanza, poiché non vi è più nulla da comunicare realmente, oltre l’inadeguatezza che coinvolge la stessa classe dirigente così come i signori della comunicazione e dell’informazione. Con la sua regia, Hal Ashby ha saputo trasporre magistralmente su pellicola, con equilibrio e attenzione, il romanzo Presenze dello scrittore polacco Jerzy Kosinski, da cui il film è tratto. Mentre la straordinaria interpretazione di Peter Sellers nei panni di Chance –una specie di progenitore di Forrest Gump – cala lo spettatore nella desolante dimensione tipica del teatro dell’assurdo, aggiungendovi un pizzico di umorismo British.
Oltre il giardino rappresenta un limite e, al tempo stesso, demarca una soglia. Oltre il giardino è il limite oltre il quale il singolo e le sue capacità non hanno più una utilità, ma è anche la soglia oltre la quale quelle stesse capacità inutili possono assumere altri significati. Oltre il giardino è l’assurdo risultato dell’antropomorficizzazione della realtà, ovvero quell’irriducibile titanismo della soggettività dell’individuo, l’insostituibile necessità umana di interpretare la realtà in accordo agli strumenti che gli sono dati, che sono al tempo stesso accesso e limite ad una realtà che sia davvero reale.  L’unica “via d’uscita”, l’unico modo di risalire dal senso di assurdità nel quale Oltre il giardino ha sprofondato lo spettatore è accettare il fatto che “la vita è uno stato mentale”.

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"Il film è un mix di paradossi che conducono lo spettatore ad interrogarsi sul reale significato dei valori comunemente accettati. Cultura, sapere, potere e fama possono appartenere a chiunque sappia coglierli con la propria purezza. Chans, il protagonista, è così distaccato e al di fuori da tutto che....tutto puo! Finanche camminare sull'acqua. La televisione ci è presentata come una congerie di finzioni che, infatti, conduce il protagonista allo straniamento totale. Fino ad arrivare al top dell'assurdo. La sensazione che il film ci lascia è quella di una immensa pace. Un Capolavoro."



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    Specifiche tecniche

    Girato in: 35 mm. Proiettato in: 35 mm. Rapporto immagine: 1,85 : 1. Colore: a colori (Technicolor). Formato audio: Mono. Lingua originale: inglese, russo e italiano.
      
      Oscar 1980: 2 nomination, 1 premio vinto 


 

Frasi celebri dal film " Oltre il giardino "


   " La vita è uno stato mentale."

Il presidente (Jack Warden)


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" Hai una grande virtù: tu non stai a ricamare con le parole per nascondertici dietro."

Benjamin Turnbull Rand (Melvyn Douglas


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sabato 6 agosto 2011

Le Comte de Monté-Cristo

Alexandre Dumas

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Alexandre Dumas, con Il Conte di Montecristo, realizzò un piccolo miracolo letterario: riuscì infatti a scrivere – prima nella classica forma del feuilleton a puntate, poi nella vera e propria edizione in volume – un’opera monumentale, eppure di grandissimo successo fin dalla sua prima pubblicazione; un romanzo popolare per la trama ricca di intrecci e colpi di scena, eppure di grande valore letterario. E soprattutto, riuscì in quello a cui ogni scrittore ambirebbe: creare un archetipo, una figura emblematica di una condizione interiore.

Se Otello è il simbolo universale della gelosia e Ulisse dell’astuzia, il Conte di Montecristo, alias Edmond Dantès, è l’incarnazione letteraria del desiderio di vendetta, della rivincita del singolo contro le ingiustizie della società. La vittima dell’invidia e della sete di potere dei suoi calunniatori che si rialza dalla polvere e  annienta i suoi nemici, nell’eterna lotta tra bene e male. Ma, nell’opera di Dumas, il bene vince non per giustizia divina: anzi, grazie al ricorso, da parte del protagonista,  alla stessa arma dell’inganno  usata contro di lui. In questo Il Conte di Montecristo è un’opera estremamente moderna per i suoi tempi ed è, in fondo, la storia di un eroe borghese, che con l’uso – quasi diabolico – della ragione, del denaro e della conoscenza dell’animo umano, vince con le sole sue forze un sistema di potere che schiaccia qualsiasi cosa possa minacciarlo.

Ambientato nella Francia della Restaurazione e della monarchia di Luigi Filippo, il romanzo di Dumas, attraverso le vicende dei tanti personaggi che si intrecciano, tratteggia anche un grande affresco della società francese ed europea di metà Ottocento. 

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Da dove cominciare? Edmond è un elenco di alias... Edmond è il Conte di Montecristo, Sinbad il marinaio,  l'Abbé Busoni, Signor Wilmore. A volte assume un ruolo diverso nel giro di pochi minuti. Tutti questi nomi sono maschere, però, miraggi, atti a  distrarre gli altri - e noi - dalla sua nobile e straordinaria interiorità. Ci sono così tante sfaccettature della personalità di Edmond... egli possiede tutto ciò che una persona possa mai desiderare, ma lui non lo usa per le "cose ​​di questo mondo" .Il suo è un intangibile obiettivo, quasi etereo, qualcosa di inestimabile e non quantificabile, e fugace. Dantès, trasformato dal tesoro di Montecristo in un archetipo, non è più Dantès. Toccato dall'oro alchemico dell'Abate Faria, Dantès è uno spettro «che si fa chiamare Montecristo, uno spettro che non appartiene più a questo mondo e che non si concede ai bisogni comuni dell'umanità», scrive Schopp.


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Stampato per la prima volta e suddiviso in puntate su una rivista fra il 1844 e il 1846, “Il Conte Di Montecristo”, esordio letterario di Alexandre Dumas, ebbe immediatamente un successo straordinario, grazie all’originalità della trama e dello stile proposto dall’autore. Quello di Dumas è infatti un romanzo intriso d’avventura e di percorsi che lo affiancano, per molti aspetti, al giallo. Anche se può sembrare inconciliabile alle caratteristiche appena elencate, la vera particolarità del libro consiste però nella profonda e accurata analisi che Dumas compie sulla psicologia dei suoi personaggi e, più in generale, sui sentimenti che inquinano l’animo umano. Inoltre, l’autore illumina nei suoi angoli più oscuri la società e la situazione politica e culturale della prima metà dell’Ottocento, fornendoci un’importante documentazione sulla vita del tempo. Per quanto concerne la trama del romanzo, essa è costruita su un intreccio di piccole storie narranti le gesta di personaggi che apparentemente non hanno nulla a che fare fra loro: queste storie però, con il procedere del romanzo, si ricollegano le une alle altre, sino a condurre al momento di massima tensione, affollato da numerosi colpi di scena nei quali tutti i nodi disseminati lungo il cammino da Dumas tornano inevitabilmente al pettine. L’aspetto più appassionante dell’intera storia è l’ingegno del protagonista che, imprigionato nei sotterranei del Castello D’If dalle brame di potere di un magistrato e dalla gelosia di due rivali, dopo quattordici anni evade, si appropria di un antico tesoro e forgia una nuova identità. La sua astuzia gli permetterà così di presentarsi nell’alta società parigina con il titolo di “Conte Di Montecristo” e di insinuarsi nelle vite dei suoi nemici divenuti ormai ricchi grazie alle loro scorrettezze. Come un serpente che striscia per poi prepararsi a mordere, il Conte si guadagnerà la fiducia dei suoi antagonisti per poi distruggere le loro famiglie dall’interno; la vendetta verrà però celata dal conte con tale abilità recitativa che i suoi nemici, sino alla rivelazione finale, non sospetteranno minimamente che sia lui l’architetto delle disgrazie che li perseguitano. Con la stessa abilità con cui il protagonista si introduce nella società di Parigi, Dumas ci cala e ci guida nell’oscuro labirinto psicologico di un uomo condannato a perdere un futuro assolato di felicità, a causa della fatalità della sorte; con maestria impareggiabile e senza quasi farsi accorgere, l’autore ci immerge infatti nell’oceano della mente del protagonista. Dalla disperazione per aver perduto un padre e la donna amata, Dumas ci trascina lungo le strade della punizione divina della quale Montecristo si fa portatore; dalla coscienza del protagonista che il desiderio di vendetta ha sommerso, alla schiacciante consapevolezza di aver violato un limite e di essere così divenuto peggiore dei suoi stessi rivali. Ed è nel momento in cui il singulto del nemico dirada la nebbia dell’odio che opprimeva la mente di Montecristo, che questi capirà che la vita perduta fra le buie pareti del Castello D’If non tornerà più, e che nemmeno la vendetta potrà restituirgliela. Nell’attimo in cui viene fulminato da questa consapevolezza, il percorso tracciato per lui da Dumas incontra un’inaspettata svolta: quella del perdono e della ricerca della redenzione. Così facendo, l’autore abbatte la struttura innalzata sulle fondamenta dell’incubo, per spingere Montecristo a liberarsi della maschera indossata per compiere la vendetta e tornare ad essere il vecchio Edmond Dantes, che la prigionia e l’odio avevano ucciso. Egli potrà dimenticare l’orrore, seppellirlo nel terreno umido del passato e ricominciare una nuova vita, con lo sguardo finalmente illuminato dalla prospettiva di un futuro diverso.

Recensione a cura di Giovanni Perisi


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" Vivete dunque e siate felici, figli prediletti del mio cuore, e non dimenticate mai che, fino al giorno in cui Iddio si degnerà di svelare all’uomo l’avvenire, tutta l’umana saggezza sarà riposta in queste due parole: aspettare e sperare "

Alexandre Dumas, Il Conte di Montecristo

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http://www.cinemaffiche.com/images/grandes/Comte%20de%20Monte-Cristo%20(le)%20(A).jpg

" La notte sfavillava di stelle. Erano in cima alla salita di Villejuif, sulla spianata da dove si vede Parigi che, come tetro mare, agita i suoi milioni di lumi che sembrano tutti fosforescenti, più numerosi e mobili di quelli dell’oceano, che non conoscono bonaccia, che si urtano sempre, e sempre s’infrangono, e sempre s’inghiottono fra loro. Il conte scese e fece qualche passo, solo, e dopo un cenno della mano, la carrozza si scostò di qualche metro. Allora considerò lungamente, e con le braccia incrociate, quella fornace in cui vengono a fondersi, a torcersi tante di quelle idee che dopo essere fermentate nel magma incandescente, sprizzano per andare ad agitare il mondo. Quindi allorché ebbe ben fissato il suo sguardo possente sopra quella nuova Babilonia:
«Grande città!» mormorò, chinando la testa e congiungendo le mani come pregando. «Non sono ancora sei mesi che ho oltrepassato le tue porte. Lo spirito della Provvidenza che credevo mi vi avesse condotto, ora me ne allontana trionfante. Il segreto della mia presenza fra le tue mura l’ho confidato soltanto a Dio, che solo ha potuto leggere nel mio cuore, solo sa che mi ritiro senza odio, né orgoglio, ma non senza dispiacere, solo sa che non ho fatto uso né per me, né per vane cause, del potere di cui mi hai fornito. Oh gran città! Nel tuo seno palpitante ritrovai ciò che cercavo, minatore paziente, ho rimescolato le tue viscere per farne sortire il male; ora la mia opera è compiuta, quella che ho creduto mia missione è terminata, ora tu non puoi più offrirmi né gioia, né dolori: addio Parigi! addio!»
E volse lo sguardo ancora sulla vasta pianura, come quello di un genio notturno, quindi, passando la mano sulla fronte, risalì nella carrozza che si chiuse dietro di lui, e disparve ben presto dall’altra parte della salita in un nugolo di polvere. "


(Alexandre Dumas)
(tratto da: “Il conte di Montecristo”)






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