On the Book

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PoesieRacconti.it


domenica 27 marzo 2011

Second Life... Quando una vita non basta?

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Second Life è un mondo virtuale, una terra di nessuno e di tutti cui chiunque può accedere, per soli dieci dollari, creandosi una vita parallela a quella reale. Con un avatar e un po’ di Linden $ (la moneta di SL, che si acquista, si vende e ha la sua quotazione anche nel mondo reale), si possono aprire un locale notturno, un’agenzia di modelle, un concessionario d’auto o una linea di abiti virtuali. In SL si possono ottenere prestigio, fama, ricchezza che si riflettono anche nella vita reale, come è accaduto alla stilista Aimee Weber, il cui avatar in treccine e autoreggenti è stato protagonista della mostra 13 Most Beautiful Avatars alla Columbia University; all’agente immobiliare Anshe Chung, che nel novembre 2006 ha festeggiato il primo milione di dollari veri guadagnato con transazioni virtuali; all’ingegnere Bruno Echegaray, che ha creato “Parioli”, un omaggio all’italian style ma anche un luogo di sperimentazioni per attività e servizi in SL. Più di 3 milioni di residenti provenienti da ottanta paesi e circa 800 mila utenti che abitano regolarmente le diverse isole di Second Life, da quelle dedicate al gioco a quelle a luci rosse, dalle simulazioni di epoche passate agli scenari avveniristici di possibili metropoli del futuro: forse SL non rappresenta il prototipo per il web 3.0, ma è certo un esempio dei trend che stanno definendo la convergence culture contemporanea, dove ogni storia, marchio, relazione, proprietà intellettuale si muoverà sul maggior numero di piattaforme mediatiche. Mode, luoghi, affari, arte, turismo, divertimento: a chi voglia entrare nel mondo di Second Life, per curiosità o in cerca di una seconda chance, questo libro fornisce tutte le indicazioni necessarie, anche attraverso le parole dei suoi protagonisti. 

Mario Gerosa
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L'accesso gratuito a Second Life permette agli utenti di creare il proprio avatar con il quale muoversi nel metaverso, interagire con gli altri utenti, costruire una casa o qualsiasi altra costruzione, gestire delle attività e persino sposarsi online. Gli utenti su Second Life sono chiamati " residenti ". Ognuno di essi ha un avatar con le sembianze grafiche personalizzate. Gli avatar possono muoversi camminando o volando. Per viaggiare a lunga distanza si utilizza il sistema del teletrasporto. E' sufficiente conoscere le coordinate del luogo da visitare per spostarsi in pochi secondi sul posto. Le "terre" di Second Life nascono come isole per trasformarsi man mano in veri e propri continenti. Le ambientazioni paesaggistiche sono assai variegate: quartieri di grandi città; paesi caratteristici; centri futuristici; parchi naturali con caverne, grotte e vulcani in attività; parchi botanici; castelli medievali o in stile gotico; spiagge; terre mediterranee e asiatiche; campus universitari; paesaggi del vecchio West e tutto ciò che la fantasia dei residenti crea giorno dopo giorno. Ciascun avatar è completamente personalizzabile e può quindi somigliare all' utente che lo possiede (tutte le razze umane sono rappresentabili), essere il sosia di un personaggio famoso o di un supereroe. Ci si può fidanzare ed eventualmente sposare (il nome del partner o del consorte appare nel profilo dell' avatar); 

http://www.techdigest.tv/second-life-wedding-thumb-400x371.jpg

Alcuni esempi di attività sono vendita di prodotti quali edifici prefabbricati (case, bungalow, padiglioni, arene, istituti, uffici, grattacieli), elementi per l' abbellimento del contesto urbano e naturale (es. pavimentazioni, moli e pontili, ponti, cascate con acqua, piante e fiori); arredamento di interni ed esterni (es. soggiorni, camere da letto, cucine, bagni, quadri e tappeti, gazebo, grotte ornamentali da giardino, cancellate, pannelli per migliorare l' ambiente esterno); mezzi di trasporto (es. auto, moto, aerei, navicelle e capsule spaziali) armi (es. pistole, fucili, bazooka) oltre a capi e accessori di abbigliamento insieme a capelli, occhi, maquillage e gioielli, molto ricercati per perfezionare l'aspetto estetico degli avatar. Si costruisce la cerchia di amici e conoscenti con interessi comuni o per pura simpatia; se si lavora come parte di un gruppo si hanno colleghi e, perché no, possono nascere antipatie tali da bannare (interdire, escludere) residenti.

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La comunicazione verbale tra avatar si gestisce via chat testuale e via chat vocale, esperienza che dal giugno 2007 arricchisce Second Life con le voci degli residenti. Già nel 2006 Second Life è un metaverso immenso. I residenti possono acquistare a pagamento un piccolo lotto di terreno per costruire ciò che vogliono. Spesso si dà sfoggio alla propria creatività per creare la casa dei propri sogni o per riprodurre monumenti e luoghi reali. E' spettacolare la ricostruzione di Piazza di Spagna su Second Life
. Altre volte i terreni sono utilizzati per avviare delle attività di shopping per vendere articoli digitali ad altri avatar (es. magliette, indumenti, mobili, ecc.). Le transazioni sono effettuate mediante l'uso di una moneta virtuale detta Linden Dollar che all'occorrenza può essere convertita in vera valuta (dollari o euro). Dopo aver conosciuto un'ampia notorietà, grazie soprattutto all'attenzione dei mass media, Second Life ha smesso di crescere a livelli esponenziali mantenendo comunque uno zoccolo duro di utenti. E' attualmente uno dei progetti di realtà 3D multiutente più riusciti. Oggi Second Life conta 19 milioni di iscritti e 1,3 milioni di utenti attivi negli ultimi 60 giorni. 27 / 01 / 2011





sabato 19 marzo 2011

Mitico Carlo Verdone.... BOROTALCO (1981)

 http://www.cinemadelsilenzio.it/images/film/poster/10487_big.jpg
 
Può succedere che un complessato venditore di pubblicazioni a domicilio venga scambiato per un consumato uomo di mondo?
 
Titolo originale Borotalco
Paese Italia
Anno 1982
Durata 98 min
Colore colore
Audio sonoro
Genere commedia
Regia Carlo Verdone
Soggetto Carlo Verdone, Enrico Oldoini
Sceneggiatura Carlo Verdone, Enrico Oldoini
Produttore Mario Cecchi Gori, Vittorio Cecchi Gori
Fotografia Ennio Guarnieri
Montaggio Antonio Siciliano
Musiche Lucio Dalla, Fabio Liberatori, Stadio
Tema musicale L'ultima luna (Lucio Dalla)
Scenografia Gian Maria Avetta
Interpreti e personaggi
Premi

Classico giro di boa nella carriera di Carlo Verdone, Borotalco, sua terza regia, rappresenta il distacco dal fregoliano macchiettismo degli esordi (Un sacco bello; Bianco, rosso e Verdone), per dar vita, cosceneggiatore con Enrico Oldoini, al suo primo film “completo”. Mettendosi un po’ da parte come attore, emergono ora le sue indubbie doti registiche, dando anche il giusto rilievo, oltre alla coprotagonista Eleonora Giorgi,  a quelli che in apparenza sono dei personaggi minori ma che nella loro complessità assumono rilevanza nella storia a tal punto da divenire parte dell’immaginario collettivo: dall’aspirante ballerino Christian De Sica, a Roberta Manfredi ritratto delle più elementari aspirazioni borghesi, passando per il truce padre di lei, lo straordinario Mario Brega e finendo con Angelo Infanti, “uomo di mondo” dalla vita omerica, almeno a parole (“un bel giorno mi imbarcai su un cargo battente bandiera liberiana…”). Sergio (Verdone), ragazzo romano timido ed imbranato, divide una stanza in un convitto con l’amico Marcello (De Sica), in attesa di sposarsi con la fidanzata Rossella (Manfredi), che lo stressa per il lavoro che si è scelto, venditore porta a porta di enciclopedie musicali, quando il padre di lei (Brega) lo vorrebbe impiegato nel suo negozio di alimentari appena rimesso a nuovo; per la stessa ditta lavora Nadia (Giorgi), fan sfegatata di Lucio Dalla ( non lo vediamo mai, ma è comunque un protagonista del film, tra canzoni e presenza “virtuale”), una ragazza sognatrice, ma con i piedi ben saldi per terra, ai primi posti nelle vendite, grazie alla sua intraprendenza. I due si incontreranno causa un comune appuntamento presso tale Manuel Fantoni (Infanti), dal quale Sergio resterà tanto affascinato da prenderne le sembianze di fronte a Nadia, una volta che il sedicente viveur viene prelevato dai Carabinieri, dando vita ad una serie di equivoci tragicomici, sino ad un sorprendente finale. Importazione nella Roma anni ’80 della classica screwball di scuola americana, con richiami anche a certe commedie di Mario Camerini, il film, pur con qualche intoppo qua e là, si presenta sciolto, compatto, ben realizzato, tutto giocato sull’iniziale contrapposizione tra i due protagonisti che diviene man mano esaustiva complicità nell’escogitare ogni tipo di espediente per poter continuare a sognare e fuggire così, grazie alla vivida forza dell’immaginazione, da quella ordinarietà borghese elevata a stile e modello di vita. Pur sdoppiandosi in Fantoni, Verdone evita virtuosismi e narcisismi, dando vita ad un personaggio a tutto tondo, “prototipo dell’homus verdonianus” (Antonio D’Olivo), simpatico, dolcemente timido, Candido moderno che affronta il mondo e le varie vicissitudini della vita con sguardo sognante, tra nevrosi e disincanto, trovando il suo contraltare nella lunaticità ed inafferrabilità dell’universo femminile: un soffio di borotalco sui disagi esistenziali, simbolo di quel minimo di teatralità che la vita spesso richiede per affrontare il quotidiano e poter andare avanti, senza superare il labile limite tra sogno e realtà, ma lambendo le sponde di entrambi.



http://asso.machiavelli.free.fr/Site_francais/Culture_Italienne/Cinema/Images_cinema/borotalco1.jpg

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/6/6d/Borotalco_(film).JPG

Carlo Verdone di Antonio D'Olivo


Come è mutato il suo modo di fare cinema dai tempi di Un sacco bello?

È molto cambiato. Come prima cosa direi che il virtuosismo si è molto moderato. I primi due film, Un sacco bello e Bianco rosso e Verdone, sono curiosi, originali, non tanto per la struttura della storia, in realtà piuttosto semplice, ma per il fatto che un solo attore interpreta più personaggi. Questa scelta li rende originali, oltre naturalmente al modo in cui li faccio agire e parlare. Borotalco segna la svolta: con il personaggio di Sergio Benvenuti abbandono il virtuosismo per tentare la strada del personaggio unico, pur sdoppiandomi con l'imitazione di Manuel Fantoni. È stata una verifica: se il pubblico non lo avesse accettato non avrei mai potuto decollare come attore e regista su una storia e un personaggio unico. Sarei rimasto un virtuoso. Borotalco dunque è stato il film più importante della mia carriera. Poi, con il passare del tempo, il mio modo di fare cinema è cambiato anche grazie all'esperienza, che mi ha portato a essere più sicuro, più ponderato: si affina "l'arte di nascondere l'arte" e si diventa più abili, più tranquilli. Anche i tempi si riescono a gestire meglio, riducendo quelle "sbrodolature" che riscontro in alcuni dei miei primi film (nonostante ciò in Un sacco bello ci sono di performance che ancora oggi trovo di una rapidità di esecuzione incredibile!). Dai tempi di Borotalco, poi, ho approfondito l'analisi della sceneggiatura, e dedico un'attenzione maggiore anche a qualche movimento di macchina. Io mi ritengo sempre un tradizionalista nel muovere la macchina da presa, eppure sia in Ma che colpa abbiamo noi che in L'amore è eterno finché dura sono riuscito finalmente a usare un po' di steady-cam. Certo, non è facile fare l'attore e il regista insieme!

Comunque considera sempre Borotalco il suo miglior film?

Non il migliore, ma sicuramente tra i migliori che ho fatto. A livello di scrittura è un film molto brioso, molto brillante, una commedia piena di equivoci scritta molto, molto bene. Con Enrico Oldoini lavorammo la bellezza di un anno al soggetto e alla sceneggiatura, ne buttammo quattro prima di arrivare a Borotalco. Quel film era essenziale per la mia sopravvivenza: non lo dovevo sbagliare. Anzi, dovevo creare qualcosa di nuovo. Credo che Borotalco, insieme a Maledetto il giorno che t'ho incontrato e Compagni di scuola, sia uno dei miei film migliori, ma c'è anche Al lupo, al lupo che a me piace molto... comunque ogni spettatore ha il suo film del cuore. Certamente questi tre li metto tra i miei preferiti.




Con il protagonista di Borotalco viene messo a punto un personaggio che e un po' considerato "l'homus verdonianus". Simpatico, dolce, malinconico, un po'a disagio con il mondo, alle volte fragile, delicatamente nevrotico. Tutto il contrario degli smargiassi di Sordi, Tognazzi, Gassman, mostruosi e cinici.

Borotalco nasce subito dopo l'esperienza del grande movimento femminista che aveva messo completamente in crisi il maschio, quel maschio che era già in difficoltà e in crisi di solitudine nel mio primo film Un sacco bello e poi, in modo diverso, in Bianco, rosso e Verdone, in cui se ne coglievano tic e difetti. Avevamo sempre visto sul grande schermo personaggi che tradivano, che facevano, diciamo cosi, "i galli cedroni". I miei personaggi maschili sono invece sempre stati in qualche modo degli sconfitti che avevano perso ogni punto di riferimento. In Borotalco c'è già, in nuce, tutto quello che sarebbe stato il mio cinema. Poi alcuni film sono diventati più poetici, come Al lupo, al lupo, altri più raffinati, come Maledetto il giorno che t'ho incontrato, ma in Borotalco si può trovare l'anima verdoniana al cento per cento: le timidezze, le fragilità, i momenti di poesia e, anche, l'immancabile finale melanconico.

Sempre con Borotalco nasce anche una sorta di struttura narrativa basata sul contrasto, la contrapposizione tra due personaggi di carattere opposto.

Sì, una contrapposizione che sarà poi il denominatore comune di tante mie pellicole, perché io ho sempre vissuto sui contrasti, soprattutto tra me e la donna, vedi Acqua e sapone, Io e mia sorella, Stasera a casa di Alice, Maledetto il giorno che t'ho incontrato e Al lupo, al lupo. C'è sempre il contrasto, c'è sempre una donna che mette nei guai il personaggio maschile. In Maledetto il giorno che t'ho incontrato nei guai non mi ci mette tanto la Buy, quanto Elisabetta Pozzi, la donna che mi lascia all'inizio del film. Poi anche la Buy ci mette del suo, soprattutto alla fine del film! La contrapposizione nasce dall'incontro tra un carattere maschile fragile e un carattere spesso lunatico, inafferrabile come quello dell'universo femminile.

© 2008, Editrice Il Castoro
Antonio D’Olivo – Carlo Verdone
134 pag., 11,90 € – Edizioni Il Castoro 2008 (Il castoro cinema)
ISBN 978-88-80-33424-8


L'autore

Antonio D’Olivo (Udine, 1959) ha lavorato per i settimanali «Panorama» e «Epoca». E’ stato giornalista parlamentare per il quotidiano «Brescia Oggi» e per il Gruppo Class Editore. Dal 1990 lavora al Giornale Radio Rai di cui è critico cinematografico e inviato. Dal 1997 al 2007 è stato uno di conduttori del contenitore culturale di Radio 1 “Il baco del millennio”, trasmissione ideata da Piero Dorfles.



Citazioni dal film


Sergio (Carlo Verdone) venditore di enciclopedie porta a porta, ha appena assistito all’arresto del sedicento architetto Manuel Fantoni (Angelo Infanti), nel frattempo alla porta suona Nadia (Eleonora Giorgi) che lo scambia per il padrone di casa e notando le foto con dedica di attori  famosi sparse sulla mobilia si incuriosisce:
Nadia: Buurt Lancaster? nooo!
Sergio: ah! si Burt….
Nadia: ma com’è, che tipo è?
Sergio (scuotendo la testa): alcolizzato totale poveraccio…
Nadia (stupita): Nooo!
Sergio: l’altra sera m’ha combinato un macello sulla moquette, m’ha vomitato  e l’ho dovuto prendere e cacciare via, non cè niente da fare, certa gente non si deve più invitare a casa…
Ormai completante immerso nel suo personaggio Sergio decide di strafare e per far colpo su Nadia parte con una spassoso resosconto sulla sua gioventù:
Sergio: …anch’io da ragazzo non ero nessuno, conducevo una vita assurda, squallida, ho fatto di tutto, ho rubato, mi sono drogato, sono andato con le donne…gli uomini, insomma ho cercato di fare ogni tipo d’esperienza, perchè secondo me la vita va proprio vissuta proprio in maniera totale, globale, non so se mi intendi..un giorno a Bombay ti incontro un ragazza mezza cinese, mezza giapponese, insomma di quelle parti là, una gran bella ragazza….
Il racconto si fa sempre più interessante e fasullo, aumentano i particolari inventati al momento, sino al culmine in cui in stile telenovela Sergio racconta lo struggente finale…
Sergio (visibilmente commosso): …e da quel giorno non la vidi più, di lei mi rimase soltanto…un kimono!



domenica 13 marzo 2011

E io rinascerò...“Cervo a primavera” (1980)



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http://img217.imageshack.us/img217/9680/bambi2gi3.jpg
 
“Cervo a primavera” vede la stagione della primavera come una rinascita, una trasformazione totale e la realizzazione di sogni e desideri. Riccardo Cocciante prende come esempio e come simbolo della sua canzone il cervo, animale elegante, leggiadro ed estremamente libero. Inoltre nel testo sono presenti moltissimi altri riferimenti al mondo animale e vegetale che sottolineano l’immedesimazione  del cantante nella natura e delicata bellezza del Creato. E Cocciante è l' eterno migratore, intento a volteggiare nel cielo senza la paura di cadere.
Nelle ultime tre strofe l’ autore si rivolge ad un amico, probabilmente immaginario, sensibile come lui, capace di capirlo ed ascoltarlo, capace di comprendere tutti i suoi desideri, l' emozione e l' incanto della primavera. Molto significative, alla fine, le parole che immergono il cantante nell’ infinito, tra il cielo e la terra, dove lui è felice di esser nato.

                           (Virna Magagnotti)
 (SOLE OTTOBRINO) 


L' Emozione Umana che l'autore lascia trasparire magistralmente con l'espressione poetica e canora di una immagine della natura colta dai suoi occhi e, soprattutto, dal suo cuore...




Cocciante, parlando ad un amico, descrive il profondo turbamento interiore ed esistenziale che sta attraversando. “…Diverrò gabbiano da scogliera…” “…ed io rinascerò cervo a primavera…”. La parte più bella e significativa è quella finale: “….con un mio ruolo definito, così felice di essere nato tra cielo, terra e l’infinito…” dove Cocciante ci fa capire la sua voglia di vivere e il sogno che vorrebbe realizzare di rinascere e proiettarsi verso l’infinito, l’immenso.
                                               (Beatrice Gallotti)                        
 
http://blog.scuolaer.it/Messaggio.aspx?IDBlog=975&IDMsg=18918
http://ec2.images-amazon.com/images/P/B00000GBC3.01._AA320_SCLZZZZZZZ_.jpg

Cervo a primavera

E io rinascerò
cervo a primavera,
oppure diverrò
gabbiano da scogliera
senza più niente da scordare,
senza domande più da fare
con uno spazio da occupare.

E io rinascerò

amico che mi sai capire
e mi trasformerò
in qualcuno che non può più fallire
una pernice di montagna,
che vola eppur non sogna
in una foglia o una castagna.

E io rinascerò

amico caro amico mio
e mi ritroverò,
con penne e piume senza io
senza paura di cadere,
intento solo a volteggiare
come un eterno migratore

E io rinascerò

senza complessi e frustrazioni
amico mio ascolterò
le sinfonie delle stagioni
con un mio ruolo definito,
così felice di esser nato
tra cielo terra e l'infinito.

Riccardo Cocciante



Cervo a primavera è l' ottavo album di Riccardo Cocciante, del 1980.
Con questo lavoro ha inizio la collaborazione tra il cantautore e Mogol.

http://www.argiadidonato.it/wp-content/uploads/goccia1.jpg
 
Insoddisfatto del disco precedente, il cantante non si lascia sfuggire l'occasione di lavorare con Mogol, reduce dal "divorzio" con Battisti. L'accoppiata funziona benissimo: Cocciante porta in vetta alla hit-parade la sontuosa melodia di Cervo a primavera, e l'album, arrangiato dall'ex Rokes Shel Shapiro, regala al suo repertorio un altro evergreen su uno dei suoi temi preferiti (Il mio amico carissimo).
 
 
 
45 giri più venduti nel mese di marzo 1981
  1. Sarà perché ti amo-Ricchi e poveri
  2. Gioca jouer-Claudio Cecchetto
  3. Maledetta primavera-Loretta Goggi
  4. Per Elisa-Alice
  5. Woman in love-Barbra Streisand
  6. Non posso perderti-Bobby Solo
  7. Cervo a primavera-Riccardo Cocciante
  8. Johnny and Mary-Robert Palmer
  9. Ti rockero'-Heather Parisi
  10. Ancora-Edoardo de Crescenzo

sabato 12 marzo 2011

" Io non voglio essere qualcosa che non sono: non mi piaceva essere qualcun altro " Le folli notti del dottor Jerryll, 1963


Le Folli Notti del Dottor Jerryll

(The Nutty Professor)

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Le folli notti del dottor Jerryll
Titolo originale The Nutty Professor
Paese Stati Uniti d'America
Anno 1963
Durata 107 min.
Colore colore
Audio sonoro
Genere commedia
Regia Jerry Lewis
Soggetto Jerry Lewis, Bill Richmond
Sceneggiatura Jerry Lewis, Bill Richmond
Produttore Ernest D. Glucksman
Interpreti e personaggi
Doppiatori italiani

Film del: 1963     Genere: Commedia
Durata: 107 minuti   

Dal discorso finale dello scienziato Jerry Lewis, ridiventato timido e bruttino

" Per imparare una lezione dalla vita non è mai troppo tardi. E io credo che la lezione che ho avuto sia stata salutare. Io non voglio essere qualcosa che non sono: non mi piaceva essere qualcun altro. E nello stesso tempo sono contento di esserlo stato perché ho scoperto una cosa di cui non mi ero reso conto: è meglio andar d'accordo con se stessi. Pensate a tutto il tempo che uno deve passare con se stesso. Beh... se non si ha stima di noi stessi, come si può pretendere che ce l'abbiano gli altri? Ecco quel che ho scoperto. "

https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg8C9MISZ8VXUOAq694VBvhuuYOR6ZEGKRx3eh2rW50XaAR9_7UxAXdlGdHWm_nx6aHl3QMUxIxDDvbRFqEfR1VRizSWM_8NTurjBnGOdwLmDgJfHWc698UWYzsVY18qvP3xit54NA8htg/s1600/jerry_lewis_the_nutty_professor_1963.jpg

Trama:

Julius F. Kelp professore di scienze che viene spesso ridicolizzato dai suoi stessi allievi, è follemente innamorato della sua allieva più bella. Per conquistarla decide di ricorrere alla chimica ma non tutto andrà per il verso giusto.


Julius F. Kelp professore di scienze che viene spesso ridicolizzato dai suoi stessi allievi, è follemente innamorato della sua allieva più bella. Per conquistarla decide di ricorrere alla chimica, inventa una pozione la chiama Kelp-Tonic e decide di sperimentarla su sè stesso. Ottiene come effetto, di diventare per un tempo limitato, Buddy Love un personaggio tanto affascinante quanto odioso. Stella ovviamente si innamora di lui. Il gioco dura fino a quando, per un errore di dosaggio, Buddy Love ridiventa il professor Kelp su un palcoscenico, davanti ai suoi studenti ed è costretto a rivelare il trucco.

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Recensione del film: 

Le Folli Notti del Dottor Jerryll

E’ evidente come il Cinema di Jerry Lewis sia un Cinema che analizza il Doppio in qualsiasi sua forma, ed è quindi normale che nel suo percorso artistico non potesse mancare il riferimento al famoso romanzo di Stevenson sfruttato già ampiamente nella storia del Cinema.

Se in Ragazzo Tuttofare, il suo primo film da regista, era lampante l’omaggio al cinema che Jerry Lewis ha amato (ad esempio quello di Stanlio & Ollio) è pur vero che la struttura del racconto era ancora abbastanza elementare, essendo il film una serie infinita di gag senza un nesso logico. Ne L’idolo delle donne e ne Il mattatore di Hollywood, i due film prima di quest’ultimo capolavoro, si continuava ad insistere sulla decostruzione del cinema in quanto cinema: tutto deve essere rivelato come spettacolo che, paradossalmente, assume una valenza più reale della realtà stessa. Ne Le folli notti del dottor Jerryll tutto ciò viene moltiplicato all’ennesima potenza. Lo sdoppiamento del cinema dal cinema è lo sdoppiamento del personaggio stesso. 


Molto liberamente tratto dal racconto di Stevenson, il film propone una sorta di dottor Jekyll (il professor Kelp), che scopre una pozione che può renderlo bello ed affascinante. Ma questo novello Mr. Hyde (Buddy Love) non può avere vita facile a lungo andare. Lewis estrae un partner da lui stesso. Dove prima c’era il caro amico Dean Martin ora è rimasto un vuoto, e questo vuoto non può essere colmato che da Jerry (sarà così per tutto il Cinema di questo grande autore). Ed è per questo che il Nostro è sia il professore che la “creatura”, tra l’altro plasmata sulla stessa figura del vecchio partner (affascinante crooner corteggiato da tutte le donne).

Eppure non pensate che il suo Cinema sia un Cinema parodico, perché Lewis si allontana dalla parodia per svelare la struttura stessa del Cinema e non di un unico racconto. I primi tre film di questo autore erano film sul Cinema come svelamento di realtà altre (anche del Cinema stesso). Qui lo svelamento è addirittura rappresentato nel suo svelarsi. Buddy Love ridiventa Kelp davanti ad un pubblico (quello dentro il film) che rappresenta noi stessi come pubblico (quello fuori del film). Lo so che è difficile raccapezzarsi, ma il fatto è che in questo film siamo davanti a molteplici livelli di lettura che rendono il tutto più complesso di quanto sembri (anche i finali, se guardiamo bene, sono almeno quattro!). 

Jerry Lewis ha scardinato le basi del cinema comico. Il personaggio di Kelp assume coscienza (contrariamente ai personaggi precedenti di Jerry Lewis) di essere un disadattato, e si muove per far sì che le cose cambino. Il personaggio goffo e inconsapevole dei film precedenti lascia il palcoscenico ad un personaggio consapevole e per questo altamente drammatico. La gag può essere letta come gag pura (senza sottointesi) o come qualcosa che va oltre. Ma la cosa eccezionale è che tutti e due questi piani di lettura sono legittimi e necessari.

Se dopo tutto questo molti ancora pensano che Jerry Lewis sia soltanto il picchiatello che faceva le smorfie dietro a quel cantante americano che cantava “That’s Amore”, allora è giunto il momento di andare a guardare dietro le apparenze per scoprire che a volte il Comico è molto più di quello che vuol far sembrare di essere. Che strana la vita!

(Renato Massaccesi)

IPB Image

Molto liberamente tratto dal racconto di Stevenson, il film propone una sorta di dottor Jekyll (il professor Kelp), che scopre una pozione che può renderlo bello ed affascinante. Ma questo novello Mr. Hyde (Buddy Love) non può avere vita facile a lungo andare. Lewis estrae un partner da lui stesso. Dove prima c’era il caro amico Dean Martin ora è rimasto un vuoto, e questo vuoto non può essere colmato che da Jerry (sarà così per tutto il Cinema di questo grande autore). Ed è per questo che il Nostro è sia il professore che la “creatura”, tra l’altro plasmata sulla stessa figura del vecchio partner (affascinante crooner corteggiato da tutte le donne).


Eppure non pensate che il suo Cinema sia un Cinema parodico, perché Lewis si allontana dalla parodia per svelare la struttura stessa del Cinema e non di un unico racconto. I primi tre film di questo autore erano film sul Cinema come svelamento di realtà altre (anche del Cinema stesso). Qui lo svelamento è addirittura rappresentato nel suo svelarsi. Buddy Love ridiventa Kelp davanti ad un pubblico (quello dentro il film) che rappresenta noi stessi come pubblico (quello fuori del film). Lo so che è difficile raccapezzarsi, ma il fatto è che in questo film siamo davanti a molteplici livelli di lettura che rendono il tutto più complesso di quanto sembri (anche i finali, se guardiamo bene, sono almeno quattro!).

Jerry Lewis ha scardinato le basi del cinema comico. Il personaggio di Kelp assume coscienza (contrariamente ai personaggi precedenti di Jerry Lewis) di essere un disadattato, e si muove per far sì che le cose cambino. Il personaggio goffo e inconsapevole dei film precedenti lascia il palcoscenico ad un personaggio consapevole e per questo altamente drammatico. La gag può essere letta come gag pura (senza sottointesi) o come qualcosa che va oltre. Ma la cosa eccezionale è che tutti e due questi piani di lettura sono legittimi e necessari.

Se dopo tutto questo molti ancora pensano che Jerry Lewis sia soltanto il picchiatello che faceva le smorfie dietro a quel cantante americano che cantava “That’s Amore”, allora è giunto il momento di andare a guardare dietro le apparenze per scoprire che a volte il Comico è molto più di quello che vuol far sembrare di essere. Che strana la vita!








venerdì 11 marzo 2011

La struttura del mito ad uso di scrittori di narrativa e cinema

IL VIAGGIO DELL' EROE
 http://www.audinoeditore.it/img/big/M-001.jpg
Uscito il 10/2010
176 pagine
19,00 €


Note: QUINTA EDIZIONE - NUOVA TRADUZIONE
Aree: Cinema, Scrittura

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Il film e la fiction tv raccontano storie. Le narrazioni più coinvolgenti, quelle che, a seconda dei casi, ci tengono incollati allo schermo col fiato sospeso o ci lavorano dentro e riemergono alla mente nelle ore o nei giorni successivi, sono quasi sempre riconducibili agli antichi miti. Forse perché, come ha scritto Jung, il sogno è il mito individuale, i miti rappresentano i sogni collettivi dell'umanità . E il grande cinema è anch'esso sogno collettivo. Questo libro, basato sul lavoro di uno studioso dei miti come Joseph Campbell, tenta di analizzare la figura del protagonista del film, con le stesse categorie con cui Campbell analizza l'eroe mitico e il suo percorso avventuroso. Ma non si tratta di un saggio antropologico o sociologico, bensì di una guida all'analisi della struttura fondante della sceneggiatura. Infatti l'eroe mitico non è solo in senso letterale trasponibile nel protagonista del film d'avventura, ma è una metafora di qualsiasi protagonista di qualsiasi film in cui il personaggio principale compia nel racconto per immagini un percorso che lo porti alla fine della storia ad una nuova consapevolezza. La struttura di questo viaggio, le stazioni di questo procedere, le figure ed i passaggi che lo porteranno a compiere il tragitto che potremmo definire "iniziatico", tutto questo viene spiegato nel libro con riferimenti continui a sequenze di grandi film. 
A dieci anni dall'uscita della versione italiana del libro, pubblichiamo una nuova edizione del grande successo internazionale di Christopher Vogler: Il viaggio dell’Eroe. Rispetto alla precedente, questa edizione si arricchisce di una prefazione dell’autore ed è caratterizzata da una nuova traduzione, che, tenendo conto della diffusione del testo fra gli scrittori italiani, si uniforma all’uso ormai consolidato della terminologia in esso contenuta. Christopher Vogler ha esaminato come story analist più di seimila sceneggiature per le più importanti major statunitensi, dalla Warner Bros. alla 20th Century Fox. È stato consulente per la Walt Disney per i film La Bella e la Bestia e La Sirenetta e capo del settore sviluppo della Fox 2000. Insegna all’università UCLA di Los Angeles.

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Ogni persona ha i propri draghi.
Tutte le volte che rinunciamo a fare qualcosa che ci piace per paura di apparire inadeguati, quando sopportiamo condizioni frustranti senza reagire, quando rinunciamo alle nostre idee per opportunismo, quando accettiamo situazioni contrarie alla nostra etica, quando abbandoniamo le nostre aspirazioni e ci rassegniamo nell'insoddisfazione…i draghi hanno vinto la partita. Quando, invece, nonostante la paura, decidiamo di affrontare la battaglia, entriamo in quello che J. Campbell ha chiamato: "viaggio dell'eroe"; un viaggio avventuroso all'interno di un territorio sconosciuto, dove hanno luogo le sfide e dove si compie la nostra trasformazione.
Campbell ha scoperto che i passi fondamentali di questo percorso, sono comuni a molte culture e si ritrovano nelle storie di tutto il mondo.


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Il "viaggio dell'eroe", infatti, può anche essere visto come una metafora del percorso compiuto da tutti quegli esseri che, accogliendo una chiamata, affrontano l'incertezza del cambiamento per seguire ciò che sono chiamati a fare.
Eroi sono, allora, anche tutti coloro che, nonostante i pregiudizi degli altri, hanno il coraggio di seguire la propria vocazione e di fare della vita il proprio viaggio. Un viaggio difficile, che inizia nel momento in cui varchiamo la soglia che divide la via vecchia da quella nuova, e dove tutto può succedere.



Il libro: "
Il coraggio di essere se stessi " da cui sono stati tratti questi passi parla di questo viaggio e del cammino che porta alla sfida con il grande drago, il nostro mostro interiore più forte, che ha il compito di imprigionare la nostra essenza e di impedire la nostra realizzazione.
Chi vuole dare alla luce sé stesso, deve intraprendere il proprio viaggio dell'eroe e affrontare il grande drago.
E come l'eroe deve addestrarsi nel migliore dei modi per adempiere la sua missione, così chi decide di seguire la via dell'auto realizzazione, deve prepararsi al meglio sui tre elementi portanti della crescita personale: la conoscenza di sé, la costruzione della propria filosofia di vita sulla roccia e l'efficacia nell'azione.


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Come l'eroe deve superare mille difficoltà per raggiungere i suoi obiettivi, così chi decide di inseguire i propri sogni, deve saper reagire agli insuccessi e superare pregiudizi e modelli.
Come il vero eroe non opera solo per sé stesso, ma per la comunità di cui è parte, così chi affronta un processo di crescita consapevole, deve saper operare per un benessere allargato e per una civile convivenza.
Ogni persona ha la propria chiamata e un viaggio eroico da compiere. Un viaggio misterioso e affascinante, che non garantisce risultati esterni, ma altre impagabili ricompense….
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martedì 8 marzo 2011

Rimanere se stessi è sempre la migliore via possibile...fuggire da se stessi è sempre una sconfitta

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...L'uomo si ribella, rifiuta le convenzioni e la maschera che è costretto a portare e con il nome di Adriano Meis intraprende un viaggio cercando una individualità vera, la libertà, l'amore autentico, la giustizia, l'onore. Gode finalmente di una disponibilità senza limiti. Ma tutto questo dura poco perchè l'amore vero è rapporto, la giustizia è confronto con gli altri, la coscienza sono gli altri. Capisce che in ogni esperienza c'è bisogno di un patteggiamento. Allora ritorna sui suoi passi, riveste uno ad uno i vestiti della vecchia mascherata, ricompone i pezzi dell'antica forma che, anche se falsa, rappresenta, alla fine, l'unica forma possibile...

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 La vicenda narrata nel romanzo - suddiviso in diciotto capitoli titolati, inclusi due a mo' di premessa - ha inizio a Miragno, immaginario paese ligure. Il protagonista Mattia Pascal e suo fratello Berto, dopo essere cresciuti sotto le cure di un bizzarro precettore soprannominato Pinzone (maestro d'umorismo, per quanto soffocato di erudizione retorica, che talora fa «il matto»), conducono una vita da gaudenti «scioperati» con cui completano l'opera dell'avido e disonesto Batta Malagna, l'amministratore che, dopo la morte del loro padre, ha prosciugato a poco a poco il patrimonio di famiglia. Berto si sottrae alla miseria con il matrimonio; Mattia, invece, con il matrimonio - determinato da una rete d'interessi, mire e inganni, talora farseschi, intorno alla "roba" di Malagna - la aggrava e complica ulteriormente la sua esistenza.

Di fronte alla conclusione farsesca di un'ennesima lite in famiglia, Mattia sperimenta il rimedio di
«ridere di tutte le sue sciagure e d'ogni suo tormento», piangendo lacrime di riso, miste al sangue dei graffi ricevuti, mentre un occhio «s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto suo»: maschera grottesca che, nel misto di lacrime e riso nonché nella visione strabica, simboleggia l'umorismo pirandelliano. Lavorando in una biblioteca invasa dalla polvere e frequentata solo dai topi, con sede in una vecchia chiesa sconsacrata, Mattia Pascal scopre poi il secondo rimedio - che è anche un approfondimento del male della vita perché ne dà più piena e profonda coscienza - della lettura di libri di filosofia che gli «sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano». Arriva così a compimento la sua antinomica, umoristica, identità, inscritta nel nome: matto e filosofo al contempo (il cognome allude a Blaise Pascal).

Quando una serie di lutti si aggiunge alla
«noja» che lo ha «tarlato dentro», Mattia, come impazzito, fugge, non visto, dal paese per farsi una nuova vita in America. La fortuna e il caso modificano però il suo destino: una clamorosa vincita al gioco a Montecarlo, che gli assicura un cospicuo patrimonio, e la notizia, sui giornali, del suo suicidio (la moglie e la suocera lo hanno identificato con il cadavere di un uomo annegato) lo rendono miracolosamente «libero, nuovo e assolutamente padrone di sé» e di un diverso, possibile, futuro. Per sbarazzarsi del tutto della vecchia identità, egli modifica il suo aspetto, assumendone uno, brutto e ridicolo, da filosofo, da cui fa discendere l'intento di armarsi «d'una discreta filosofia sorridente», con la quale contemplare «da fuori» la vita degli altri. Si dà poi il nome fittizio di Adriano Meis, traendolo da una dotta discussione sulla bruttezza fisica di Cristo, e si costruisce una storia, una memoria fittizia, con l'immaginazione e l'esperienza di un anno di viaggi per l'Italia e l'Europa. «Forestiere della vita», Adriano Meis, patendo il suo essere nessuno, si stabilisce infine a Roma, in una stanza d'affitto in via Ripetta, in casa di Anselmo Paleari, impiegato in pensione, che vive con la figlia Adriana e ospita il genero Terenzio Papiano, vedovo di un'altra figlia, e la nubile quarantenne Silvia Caporale.

Il Paleari, ingenuo cultore di pratiche spiritiche nonché di studi teosofici e filosofici, in alcuni passi di grande importanza per spiegare l'opera di Pirandello, illustra la sua filosofia: eleva la sua protesta, d'impronta leopardiana, contro l'illusione scientista del progresso e i limiti della scienza (cap. x), come fa lo stesso Mattia (cap. IX); si sofferma sul problema della morte e dell'Essere, del buio della crisi individuale e sociale, senza una luce che illumini: siano i lanternoni delle ideologie collettive o le lucernette, individuali, del pensiero e della letteratura (cap. XIII, pagine che torneranno nel saggio su L'umorismo); fornisce, ancora, un'immagine emblematica dell'umorismo pirandelliano: lo
«strappo nel cielo di carta» di un teatrino di marionette, da cui deriva l'incertezza che trasforma Oreste in Amleto e la tragedia antica in moderna.
Paleari infine, questo umoristico «Amleto in ciabatte» (la definizione è di Nino Borsellino), svolge delle considerazioni sulla morte di Roma che s'intrecciano con alcune riflessioni sul moderno, come perdita del sacro, che costituiscono una dimensione fondamentale del romanzo, esplicitata nella seconda premessa: il «destino di Roma» nella modernità è anche, metaforicamente, quello della letteratura. Queste riflessioni sul destino collettivo avranno un notevole peso anche sul destino individuale di Mattia Pascal. Tra Adriano e Adriana si sviluppa una reciproca simpatia e attrazione che, nel buio di una seduta spiritica, si materializza in un bacio furtivo. L'identità fittizia si rivela ora al protagonista una nuova prigione che lo costringe a una vita di menzogne e, nel contempo, a essere nessuno, un'ombra inconsistente che tutti possono calpestare, visto che egli non può concretizzare un legame stabile con Adriana, né può denunciare alla polizia il furto subito da Papiano.
Mattia simula perciò il suicidio di Adriano Meis nel Tevere e torna a Miragno dove, tuttavia, non può riassumere la propria vita precedente con la moglie Romilda che, nel frattempo, si è risposata col suo amico Pomino, da cui ha avuto una figlia. Distaccato dalla vita, «in pace», Mattia vive nella biblioteca un'esistenza e un'identità del tutto particolari: «io non saprei proprio dire ch'io mi sia», risponde a don Eligio; e a coloro che lo vedono visitare la propria tomba: «Io sono il fu Mattia Pascal».

Il noto explicit del romanzo va letto, tuttavia, contestualmente alle due premesse (ma conclusioni, nella fabula). Infatti, sulla sua tomba d'uomo, il fu Mattia Pascal accende metaforicamente - seguendo un'indicazione di Paleari - la sua lucernetta di scrittore: egli affida la propria identità postuma (il manoscritto dovrà essere aperto dopo la sua morte) a una storia che, paradossalmente, racconta di un'identità impossibile.

La biblioteca cui è affidato il manoscritto - fuor di metafora, la letteratura - è sì deserta e in abbandono, sconsacrata come la chiesetta che la ospita, ma può sempre conservare un'opera «da poter servire d'ammaestramento a qualche curioso lettore»; e dunque essa mantiene una, qui sminuita e postuma, forma di sacralità, ancor più evidente nelle due premesse che svolgono una funzione di "cornice" narrativa e metaletteraria. Nella «Premessa seconda (filosofica) a mo' di scusa», il fu Mattia Pascal dice di scrivere, «oltre che per la stranezza del suo caso» (una delle atipicità registrate dalla letteratura naturalistica), «in grazia di» una «distrazione provvidenziale» che consente all'uomo di vivere, nonostante gli sforzi «di distruggere le illusioni che la provvida natura ci aveva create a fin di bene».
Mattia Pascal affida alla scrittura la propria identità, illudendosi per un attimo e dimenticando la moderna sconsacrazione della letteratura, in grazia di una «distrazione» che costituisce un preciso riscontro testuale leopardiano inserito in un contesto interamente e chiaramente leopardiano, in cui appare decisivo il motivo copernicano che prefigura la teorizzazione poetica del saggio su L'umorismo.

Infatti nel saggio (
cap. 5 della seconda parte), Pirandello, richiamando esplicitamente Il Copernico di Leopardi, considererà umoristica la compresenza di due sentimenti opposti: quello della piccolezza dell'uomo che, dopo la rivoluzione copernicana, si scopre parte infinitesimale dell'universo; e quello opposto, ma paradossalmente inscindibile, della grandezza dell'uomo, basato però non più sulla sciocca superbia razionalistica ma sulla percezione di una compenetrazione all'infinito. Se la fonte prossima di questo atteggiamento umoristico era Leopardi, quella più lontana era Blaise Pascal.

Con
Il fu Mattia Pascal nasce il romanzo del Novecento. Le «storie di vermucci» che Mattia Pascal rifiuta di scrivere sono quelle, nei canoni ottocenteschi del realismo (e poi del naturalismo), di una narrazione fatta «per raccontare e non per provare», cui egli preferisce un romanzo filosofico, saggistico, il moderno romanzo umoristico. Da questo punto di vista è veramente emblematica la vicenda dell'incontro - proprio nella tipografia che stampava il romanzo - tra Pirandello e Verga, e della loro successiva, breve corrispondenza (non ancora ben indagata). Verga si vedeva superato da una nuova forma di romanzo in cui si «intuiva la presenza non più del personaggio che vive, anzi lotta per la vita, ma del personaggio che si sente vivere. L'evento indicherebbe una radicale trasformazione dell'ottica narrativa: quella che intercorre tra la deformazione "strabica" dell'umorista e la focalizzazione convergente del verista» (Nino Borsellino).

L'ambivalente duplicità dell'umorismo pirandelliano, qui già in atto, nella scrittura, in un misto di narrazione, riflessione e commento, si manifesta però, prima ancora, nell'atteggiamento di
«distrazione» che la rende possibile. La letteratura, per quanto sconsacrata e morta, rinasce e vive: essa - come l'uomo - può essere grande solo a patto di riconoscere la propria piccolezza (senza atteggiamenti da nuovi vati dannunziani); e la grande luce della sua piccola lampada può accendersi perché, leopardianamente e umoristicamente, a fianco della visione demistificante dell'arido vero, persiste, antinomicamente, l'illusione stessa.

Tre gli adattamenti cinematografici. Nel 1925 Feu Mathias Pascal (negli USA The living dead man), con la regia e la sceneggiatura di Marcel L'Herbier; interpreti Ivan Mousjuokine, Lois Moran, Pierre Batcheff. Nel 1937 L'homme de nulle part (in Italia Il fu Mattia Pascal, con la regia di Pierre Chenal; sceneggiatura di Pierre Chenal, Christian Stengel, Armand Salacrou; dialoghi di Roger Vitrac, con la revisione di Luigi Pirandello; interpreti Pierre Blanchard, Isa Miranda. Nel 1985 Le due vite di Mattia Pascal, con la regia di Mario Monicelli; sceneggiatura di Suso Cecchi d'Amico, Ennio De Concini, Amanzio Todini e Mario Monicelli; interpreti Marcello Mastroianni, Flavio Bucci, Laura Morante.
Una riduzione teatrale di Tullio Kezich fu messa in scena da Luigi Squarzina (1974) e Maurizio Scaparro (1986). Nel 1960 andò in onda una riduzione televisiva con la regia di Diego Fabbri.

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 Pirandello all'epoca del Fu Mattia Pascal,e copertina del romanzo


Il tema principale de Il fu Mattia Pascal è ancora quello, così caro a Pirandello, dell'identità.
Fuori dalla legge e fuori di quelle particolarità, liete o tristi che siano, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal, non è possibile vivere.
Così dice al protagonista il colto sacerdote don Eligio Pellegrinotto, lo stesso che lo consiglierà di scrivere le sue memorie.
E questo mi sembra il succo del libro o, per usare una brutta parola, il messaggio.
Chi non è riconosciuto dalla legge e dalle burocrazie, non esiste. E' il dramma delle società moderne.
La persona che noi rappresentiamo, non è solo una maschera che ci inchioda in un'esistenza che sentiamo inautentica, ingabbiandola, a volte, in un inferno senza vie d'uscita. E' ancora questa maschera che indossiamo nella vita sociale, l'unica che ci permette di dispiegare, pur con le dovute limitazioni, la nostra genuina personalità.
Le convenzioni sociali, storicamente determinate, sono le coordinate che delimitano la nostra esperienza vitale, pur creando un doloroso dissidio tra uomo e società.
Pirandello sembra qui anticipare motivi della psicologia del profondo, junghiana in particolare.
Il suo romanzo, inoltre, mi ha fatto pensare a certi terrificanti incubi burocratici del miglior Kafka.
Altri motivi del romanzo sono l'importanza del caso e dell'assurdità nel condizionare l'esistenza dell'individuo (è impossibile volere estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre) e la crisi dell'uomo che, dopo le teorie di Copernico, non è più al centro dell'universo (Copernico, Copernico, don Eligio mio, ha rovinato l'umanità, irrimediabilmente. Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione dell'infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell'Universo... Storie di vermucci ormai, le nostre).
Certa critica contemporanea (De Rienzo, 1997), considera il Mattia Pascal, il primo romanzo esistenzialista italiano.
La narrazione è condotta in prima persona dal protagonista stesso e molte sono le digressioni che egli fa sulla tecnica da usare nella stesura delle sue memorie, così da poter parlare di metaromanzo (Cudini, 1999)
Mi è sembrato, che, al di là delle profondità filosofiche, il romanzo abbia un intreccio suggestivo, che avvince il lettore al libro, con momenti di pura suspense, come ad esempio quando Mattia Pascal fa il suo ritorno a casa.
Naturalmente non mancano l'ironia, la comicità e l'umorismo pirandelliani.
Dal punto di vita stilistico, trovo la scrittura di Pirandello piacevole e asciutta, lessicalmente ricca senza essere barocca, che, se da un lato non indulge a preziosismi letterari, dall'altro assume spesso il carattere del parlato, del colloquiale, del conversazionale, consentendo alla narrazione una fluidità ammirevole e innovativa.
Pur avendo l'opera di Pirandello un respiro internazionale, i suoi romanzi mi sembrano riflettere alcune caratteristiche nazionali, che ci permettono di capire meglio il Paese in cui viviamo.

SCHEDA E TRAMA DEL FILM 

                               L'homme de nulle part, 1937   
                                 ( Il fu Mattia Pascal )


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Dal romanzo omonimo di Luigi Pirandello. Mattia Pascal, uomo debole e sognatore, si sposa ad una giovane ed è tiranneggiato dalla madre di lei che, in breve tempo, riesce a rendergli ostile anche la moglie. Quando sua madre, ridotta in miseria per avergli fornito il capitale preteso dalla suocera per acconsentire alle nozze, muore di crepacuore, il Pascal si allontana all'improvviso con le poche centinaia di lire che la mamma gli ha lasciato. Capitato a Montecarlo vince in poche ore una grande fortuna. Ritorna allora al suo paese, ma viene a sapere che il cadavere di un vagabondo è stato scambiato per il suo ed è stato seppellito. Si allontana allora di nuovo, celandosi sotto il nome di Adriano Meis. A Roma, dopo una certa permanenza, ama riamato da una fanciulla, fidanzata di un losco figuro. Costui intuisce qualche segreto nel passato del giovane Meis e cerca di farlo sospettare anche dalla ragazza. Poiché la situazione del Pascal non gli consente di opporsi alle mene del malvagio, egli decide di ritornare in famiglia. Ma qui trova che sua moglie è risposata ed ha un bambino; e allora approfitta della minaccia rappresentata dal suo ritorno per chiedere al secondo marito di lei, impiegato allo Stato Civile del Municipio, di fabbricargli le carte di identità al nome di Adriano Meis. E con questa nuova personalità ritorna a Roma, sgomina il rivale e sposa la fanciulla.

FOTOGRAFIA: Joseph-Louis Mundwiller, Ugo Lombardi, André Bac
MONTAGGIO: Guy Simon
MUSICHE: Luigi Ferrari Trecate, Jacques Ibert
PRODUZIONE: ALA - COLOSSEUM FILM
DISTRIBUZIONE: COLOSSEUM FILM
PAESE: Francia, Italia 1937
GENERE: Drammatico
DURATA: 93 Min
FORMATO: B/N
SOGGETTO:  TRATTO DALLA PIECE TEATRALE OMONIMA DI LUIGI PIRANDELLO    

fonte "RdC - Cinematografo.it"








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