On the Book

On the Book

PoesieRacconti.it


sabato 16 aprile 2011

Rimanere se stessi in balìa della vita...

https://andrearizzi66.files.wordpress.com/2009/08/c6378e834f7bbe8c9dc7e6a742286de4.jpg?w=233
Rimanere se stessi in un mondo che
giorno e notte si adopera per trasformare
ciascuno di noi in un essere qualsiasi
vuol dire combattere la battaglia più dura della vita.

da 
“Sulla riva dei nostri pensieri”

https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj_aCZckyXdIQopahqIhjI8M5NmlIzxSStI2FdDIpERTOX1NNIqaR1Llmv4E3p4l0vsMlb5OJMPczsi6bYZP6NLfA_WQYT9AIwrd8Uuibz76wjoiLZBmOVJTfbSve_j7WgttyUJlNX-T9g/s1600/ipocrisia-3.jpg

Raggiungere una valida realizzazione personale è senza dubbio la meta fondamentale per ogni individuo, ma cosa vuol dire in concreto realizzare se stessi? Per molti questa espressione è sinonimo di “affermarsi socialmente”, di acquisire potere, prestigio, denaro, e infatti gran parte delle persone aspirano a diventare “qualcuno” nella vita, oppure, se non si reputano all’altezza, fanno la scelta opposta, rassegnandosi a rimanere dei “nessuno”.
Entrambe queste scelte — accontentarsi di essere nessuno o tentare di essere qualcuno — sono soltanto illusioni, che generano confusione e sofferenza: ogni individuo è fatto per essere se stesso e tutto ciò che non è “se stesso” (essere “qualcuno” o essere “nessuno”) non può realmente gratificarlo, realizzarlo, ma al massimo dargli l’illusione momentanea di esserlo.
Molta della insoddisfazione esistenziale che caratterizza la nostra epoca dipende proprio da questa illusione, dallo sprecare il proprio tempo ed energie per realizzare ciò che non siamo o per trattenerci dal rischio di metterci davvero in gioco. Leggiamo una testimonianza dal vivo, tratta dalla raccolta di storie autobiografiche da me curata Dietro le maschere alla scoperta di se stessi, ed. da Compagnia degli araldi.
Le mete che ho inseguito negli ultimi cinque o sei anni si sono rivelate insoddisfacenti ed illusorie, e tutto ciò che ruotava attorno ad esse sta crollando come un castello di carte. Pur trattandosi di un processo doloroso ne avverto l’inevitabilità e anche la positività. Ho toccato con mano che denaro, prestigio e potere sono solo chimere che promettono ma non mantengono; è ben altro ciò che può davvero realizzarmi come essere umano, che può farmi stare bene con me stesso e con gli altri: ci illudiamo — la società ci illude — che se avremo più soldi, più potere, più prestigio saremo diversi, la nostra vita sarà migliore, ma questo è vero solo a livello superficiale; se non si cresce dentro, l’abito può al massimo ingannare gli altri ma non noi stessi. Io ho avuto la grande fortuna nella mia vita di raggiungere abbastanza presto certi traguardi e di scoprirne la vacuità, l’illusorietà. È come se vivessi per soddisfare le esigenze di un altro, non di me stesso.
Per quanto la mia mente fosse molto soddisfatta, orgogliosa di tutti i traguardi raggiunti, a me non arrivava nulla di positivo, niente che mi facesse sentire un po’ più felice: potevo pensare di avere tutto ciò che occorre per la felicità ma non potevo ingannare il mio “sentire di non essere felice”. Già alcuni decenni fa lo psicanalista Erich Fromm aveva messo in evidenza che la nostra felicità e il nostro benessere appartengono prevalentemente alla sfera dell’essere; l’avere, da solo, non può dare la felicità, sia che si tratti dell’avere materiale, sia che si tratti di avere sociale, vale a dire: potere, fama, prestigio etc.
Non tutti hanno però letto Fromm, e ancor oggi la maggior parte delle persone è preda di questa illusione, la cui forza sociale risiede in due fattori:
1) nel fatto che molti individui non raggiungono mai alcun traguardo materiale e quindi non arrivano a toccare con mano che essi sono vuoti, non nutrienti, e così possono illudersi ad infinitum, vivendo di speranza o di rassegnazione;

2) quelli che raggiungono qualche traguardo si rendono, sì, conto che essi non risolvono affatto i loro bisogni e problemi esistenziali, però gli è difficile accettare il fatto che qualcosa che tutta la società valorizza e insegue sia in realtà un’illusione, e allora pensano: “non funziona perché non ne ho abbastanza: devo averne di più, devo scalare una vetta più alta, lì troverò ciò che cerco”.
E così la spirale si perpetua. È un po’ come la storia del vestito nuovo del re: il re è nudo, ma nessuno ha il coraggio di ammetterlo, dal momento che gli altri sembrano vederne ed ammirarne il vestito, nessuno ha abbastanza fiducia in sé da credere in ciò che vede coi propri occhi e andare contro corrente: solo la purezza di un bambino — ancora non condizionato dalla società — svela l’inganno. Così è per le false mete che si diceva: pur toccando con mano la loro vacuità, manca la fiducia in se stessi per ammetterla: la società non può sbagliare — crediamo — e se tutti dicono che questo è ciò che davvero conta nella vita bisogna che sia così; se per me non funziona è colpa mia, forse non ne ho abbastanza. 


http://contentstatic.abctribe.com/Disegni/Guide/essere_ico.jpg

Chi si ostina in questa spirale perversa passa tutta la vita ad arrampicarsi sempre più in alto senza però trovare mai ciò che cerca. Se la cultura dominante intende con “realizzarsi” il raggiungere vette sociali e materiali sempre più alte, la nuova cultura dà a questa espressione un ben diverso significato.
Per capirlo proviamo a immaginare l’essere umano come un seme che deve germogliare, crescere e maturare, anzi, come un insieme di semi diversi — o talenti — ciascuno dei quali rappresenta una parte importante di quel meraviglioso microcosmo che è l’uomo. 

http://fc07.deviantart.com/fs38/i/2008/313/c/0/Waiting_for_Love_by_TheImperfectImpala.jpg

Se noi diamo spazio al nostro bagaglio interiore e dedichiamo tempo e attenzione a coltivare le nostre potenzialità siamo senz’altro sulla giusta strada, stiamo gradualmente realizzando noi stessi, e questo non può mancare di farci stare bene, di darci soddisfazioni e gratificazioni vere, cioè che ci nutrono nel profondo. Se, viceversa, rinneghiamo il nostro bagaglio autentico e tendiamo a sostituirlo con qualcos’altro che non ci appartiene, solo perché crediamo — o ci hanno fatto credere — che sia meglio così, allora ricaveremo solo soddisfazioni effimere, momentanee, che gratificano forse la nostra maschera sociale ma non la nostra essenza profonda, ciò che veramente siamo. In questo caso possiamo stare certi che prima o poi il nostro essere autentico si ribellerà, facendoci provare sempre più spesso sensazioni del tipo “inquietudine”, “insoddisfazione”, “noia esistenziale” e simili.
Per quanto dolorose, non vanno criticate: sono sensazioni benefiche, sono la spia rossa che ci segnala che qualcosa non va nella nostra vita, nel modo in cui stiamo vivendola, e grazie ad esse possiamo decidere di fare qualcosa per cambiare in meglio. Ogni essere umano rimane incompleto, come un seme mai germogliato, finché persegue mète non sue, finché vive inconsapevolmente, come un automa, seguendo le abitudini e le consuetudini sociali senza mai interrogarsi sulla loro effettiva validità e senza osservare gli effetti che tali abitudini producono su di sé e sugli altri. Troppo spesso deleghiamo ad altri il nostro potere di autodeterminare la nostra vita, rinunciando, in cambio di tranquillità e rassicurazione, al nostro diritto di essere se stessi.
Chiarito che cosa vuol dire “realizzarsi” cerchiamo di capire come poterlo fare in concreto. Il punto di partenza è senza dubbio conoscere se stessi, scoprire cioè di quali “semi” — o talenti — è composta la nostra dotazione interiore. Quali sono le cose per cui siamo più portati? In che cosa possiamo eccellere? Quale è il percorso che più si confa alle nostre aspirazioni e caratteristiche?
Secondo varie scuole della moderna psicologia — dalla psicosintesi alla psicologia umanistica, dall’analisi bioenergetica alla gestalt — la natura ci ha dato un radar molto semplice per rispondere a queste domande: le cose che più ci stimolano e ci danno soddisfazione sono quelle più adatte a noi.
Se avete dentro di voi certi talenti — ad esempio di tipo artistico — ogni volta che vi imbatterete in un’opera d’arte o incontrerete un artista o ne leggerete la vita, sentirete qualcosa dentro, una emozione, un sussulto, un sospiro, e così per ogni altro talento: sentiamo qualcosa dentro che ci emoziona, ci stimola, ci attrae.
Se da bambini fossimo stati allenati a capire veramente i nostri sentimenti e a fidarci delle indicazioni interiori non avremmo difficoltà nello scegliere la strada giusta per noi: i nostri sogni e le nostre aspirazioni ci fanno da guida. Il punto è che non veniamo affatto abituati a sviluppare questa capacità ma anzi siamo indotti a scegliere il nostro percorso scolastico e poi lavorativo in base a tradizioni di famiglia o a considerazioni meramente opportunistiche, quali la redditività, il prestigio sociale e simili.
Insomma, è la mente razionale a decidere, più che il cuore e il sentire interiore — una mente che non è neppure del tutto nostra, condizionata com’è dall’ambiente sociale e dai mass media. 

http://www.pomodorozen.com/wp-content/uploads/2010/05/corsi-autostima.gif

L’educazione dovrebbe essere il processo attraverso il quale il potenziale di ogni individuo — i suoi talenti — viene riconosciuto e aiutato a germogliare, a venire fuori: “educazione” deriva infatti dal latino ex-ducere che significa letteralmente “portare fuori”. Purtroppo quello che si fa a scuola in molti casi non è un portar fuori i talenti del bambino, ma piuttosto portare dentro i valori e gli schemi degli adulti, quindi non è un e-ducare ma piuttosto un in-ducare, indottrinare.
La nostra mente, in misura maggiore o minore, è il prodotto di una inducazione; solo il sentire interiore è nostro, è la cosa più nostra che abbiamo, ed è indipendente dall’ambiente sociale: che voi nasciate in Cina o in Italia, poveri o ricchi, il vostro sentire è unico, i vostri talenti sono unici.
Ecco perché trovare la propria strada non è un affare per la mente ma piuttosto per quel radar interiore che chiamiamo “sentire”. Il nostro “radar” funziona in modo molto semplice, comprensibile anche da un bambino: se ciò che facciamo ci stimola, piace, ci da soddisfazione e ci nutre, non solo nel corpo ma anche nel cuore e nell’anima, allora significa che ci stiamo realizzando.
Se invece la nostra vita ci stanca, ci annoia, sembra assorbire tutte le nostre energie restituendoci poco o niente in cambio, se l’entusiasmo è per noi solo un lontano ricordo, allora questi sono segnali inequivocabili che siamo distanti dalla nostra strada e non stiamo affatto realizzando noi stessi, ma tutt’al più qualche ideale o modello altrui, qualcosa insomma che non fa realmente parte di noi.
In questo caso dobbiamo avere il coraggio di ammettere con noi stessi che è tempo di cambiare. In fondo al nostro essere sappiamo tutti, seppure vagamente, qual’è la nostra vera strada, ma spesso abbiamo paura ad ammetterlo perfino con noi stessi; la nostra ragione si preoccupa sempre di dimostrarci in infiniti modi che è impossibile seguire quella direzione, che avremmo troppo da perdere, che non saremmo all’altezza, che ormai è tardi, che.... Certo, sono motivi indubbiamente validi, ma che senso ha vivere una vita che non ci realizza? Ed è davvero così terribile perdere qualcosa che tutto sommato non ci nutre affatto?
Esistono molti casi di persone che in un certo momento della loro esistenza cambiano radicalmente vita e vanno a fare un altro lavoro. Sono casi in cui queste persone, in precedenza fuori strada, si sono rese conto delle loro reali esigenze e capacità interiori.
Non è mai troppo tardi per trovare la propria strada. E non è nemmeno detto che si debbano fare scelte drastiche come quelle suddette, a volte basta molto meno per nutrire il nostro essere. E' certamente una grossa responsabilità quella di realizzare la propria vita, ma il gioco vale senz’altro la candela: la vita è nostra, se non la viviamo noi chi la deve vivere? Chi ci può dire cosa va bene o cosa non va bene per noi se non noi stessi? Che senso ha “divenire qualcuno” in confronto a “essere se stessi”? 

http://www.diregiovani.it/codimmagine/2017/la%20fatica%20di%20essere%20se%20stessi.jpg

“Quando, anni fa, mi resi conto che stavo vivendo un copione scritto da altri, decisi di non stare più al gioco, di non accontentarmi di vivere una vita standard, anche se ricca di vantaggi e privilegi com’era la mia, ma di vivere la mia vera vita, di esprimere la mia vera essenza.
Non sapevo però come realizzare tutto ciò, intuivo che doveva esserci dell’altro ma non sapevo cos’era. Ho dovuto calarmi a fondo dentro di me per scoprire ciò che veramente sono, ho dovuto mettermi totalmente in discussione; cambiare molte idee che credevo mie, molti atteggiamenti che mi limitavano, ho dovuto lottare per affermare il mio diritto di essere me stesso, lottare con soggetti esterni, ma anche con alcune parti di me.
Non è stato facile, e il percorso non è ancora terminato, ma i miei sforzi sono stati ampiamente ripagati.” (tratto da “Dietro le maschere alla scoperta di se stessi”, op cit.) C’è una qualità comune a tutti gli esseri umani, anche se in molti è ancora allo stato latente, e si chiama potere personale, cioè il potere di prendere la vita nelle proprie mani, di autodeterminarla, sentendo nel profondo di noi stessi ciò che va bene, che ci fa sentire realizzati. Nessun altro può fare questa scelta al nostro posto. Dobbiamo sentirci degni di vivere la nostra autenticità, ognuno a modo suo, perché ciascuno è un esemplare unico, e anche se noi esseri umani ci somigliamo per molti aspetti, ognuno possiede una propria sfumatura di colore, di fragranza, e consentendo a se stesso di farla sbocciare e di viverla non solo realizza se stesso ma arricchisce anche l’intera umanità.
Enrico Cheli

** Enrico Cheli, sociologo, psicologo, docente universitario
www.enricocheli.com

Articolo pubblicato sulla rivista 
ARMONIA n. 12 - febbraio/marzo 2000 

Nessun commento: