On the Book

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PoesieRacconti.it


sabato 12 febbraio 2011

La vita è un sogno...

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Ho ripreso in mano, a qualche anno dalla prima (e forse un po’ svogliata) lettura, Le notti bianche, di Fedor Michajlovic Dostoevskij: e, poiché è un libretto di cento pagine sì e no, ci ho messo appena mezz’ora a finirlo, ma poi l’ho riletto, e l’ho riletto ancora: i motivi sono semplici, e sono due – il primo è che si tratta di un testo straordinario, e il secondo è che non me lo ricordavo così bello. Non amo granché Dostoevskij, pur riconoscendone la grandezza, ma Le notti bianche e Il giocatore sono due libri meravigliosi: autentici gioielli di perfezione, sia nella scrittura vera e propria che nella narrazione, impeccabile come il funzionamento di un perfetto meccanismo a orologeria. E poi, ci sono i personaggi: tratteggiati dal grande scrittore russo con una forza, e un’autenticità, rare a trovarsi. Mi viene in mente la teoria dell’imbuto citata da Paolo Nori in Le cose non sono le cose: “Ci sono autori che prendono il mondo e lo riscrivono dal proprio punto di vista, fanno passare il mondo sconfinato attraverso l’imbuto della proprio persona e del proprio minuscolo sguardo, Colette per esempio è uno di questi. E ci sono autori che rovesciano l’imbuto, che dalla propria persona minuscola traggono un mondo sconfinato,Tolstoj è uno di questi” – e Dostoevskij anche.
Le notti bianche, pubblicato nel novembre del 1848 sulla rivista Otecestvennye zapiski (“Quaderni patriottici“), è poco più di un racconto ambientato nelle notti bianche (com’è ovvio) di San Pietroburgo*. L’intreccio si svolge nell’arco di quattro di queste notti, descritte con piglio onirico: la città, deserta e silenziosa, è poco più che uno sfondo; in primo piano, come su un palco di teatro, ci sono la ringhiera di un canale, una panchina e i due protagonisti: Nasten’ka, vezzeggiativo di Anastasija (poteva chiamarsi diversamente un’eroina russa?), giovane donna innamorata e delusa, e un uomo – la voce narrante – di cui non sappiamo nulla, nemmeno il nome (indeterminatezza per la quale Nabokov critica severamente Dostoevskij, ma che in realtà è la misura del suo rapporto con il personaggio: né più né meno, “un mistero”). Sappiamo però che costui è un sognatore, un visionario puro; che si è isolato dal resto del mondo proprio per restare chiuso nelle sue fantasticherie, ed imbevuto di letture romantiche: non ha stretto legami con nessuno e vive nutrendosi della vita altrui, osservando lo spettacolo delle esistenze che si svolgono davanti ai suoi occhi senza mai prenderne parte, spettatore (e non attore) nel mondo. Ed è proprio la dimensione irreale della città, senza il chiasso che anima la Prospettiva Nevskij (la strada più importante, e affollata nelle ore diurne, di San Pietroburgo), sgombrata dal traffico di gente che l’infesta di solito, che si erge a puntuale metafora della solitudine: quella del protagonista maschile, e quella di Dostoevskij: nella mia gioventù”, egli dice, “mi sono talmente perduto nelle fantasticherie da lasciar passare senza accorgermene tutta la mia giovinezza”. Le notti bianche è la narrazione, purissima e cristallina, di una storia d’amore non consumata: una storia di solitudini che s’incontrano. Ed è pure (e, forse, soprattutto) la narrazione del conflitto tra il sogno e la realtà, nel nostro quotidiano: tra ciò che avremmo disperatamente voluto fare e ciò che in realtà abbiamo fatto, tra la purezza delle nostre illusioni e il disastro delle nostre realizzazioni, tra la speranza di un futuro di redenzione e la paura della ripetizione delle nostre sconfitte. Per quattro notti, Nasten’ka e l’anonimo protagonista maschile si raccontano le proprie esistenze (fatte, come per ciascuno di noi, di trionfi e miserie), a vicenda: in colloqui ora densi e vertiginosi, ora accorati, ora concitati: forse ignorando che, dopo quelle quattro lunghissime notti, nulla sarà più come prima. Soprattutto per il tragico, dolente protagonista l’incontro con Nasten’ka si rivela un vero e proprio terremoto: per mezzo delle parole della ragazza, ancora intrise di purezza e innocenza, egli scopre finalmente l’amore: ed esplorando profondità e vertigini di questo sentimento – seppure per interposta persona – “assaggia” finalmente la vita: non come un distaccato osservatore ma come un autentico, sincero essere umano. Fino a domandarsi se tutto ciò che ha vissuto fino all’incontro con Nasten’ka non sia stato che un sogno: perché ne Le notti bianche, realtà e dimensione onirica giocano costantemente a rimpiattino: e di nuovo Dostoevskij ci racconta una storia che ha la forza per essere la storia di tutti noi, come se quella panchina sulla Neva fosse il centro dell’universo e da lì, osservatorio privilegiato sul “cuore delle cose” e sulle regole che governano la vita, la morte, l’amore e il tempo.
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E se Marzullo avesse ragione, ostinandosi a chiedersi amleticamente se: la vita è un sogno o i sogni aiutano a vivere meglio?”.





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Il Film della nostra vita, chi è il regista?

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Vi è mai capitato di dire: ”Mi sono fatto un film mentale di questa situazione! Ma poi mi son reso conto che non era come immaginavo!”… Parafrasando:questa situazione non era come la avevo ‘filmata’ nella mia mente. Mai capitato?Ma perchè succede? Da cosa dipende la differenza tra ciò che ci aspettiamo e la realtà?

Il regista neurofisiologico
Il cervello ‘pensa’ per immagini, suoni e sensazioni. La mente quindi è l’insieme dei processi mentali in atto nel cervello. Il cervello, crea la “nostra” realtà interpretando e filtrando ciò che vediamo, sentiamo, udiamo, tocchiamo e odoriamo. Quindi ciò che viviamo è un’ interpretazione/ricostruzione della realtà e quindi totalmente soggettiva (personale). La nostra mente è il regista della nostra vita.Uno dei canali principali usati dal’essere umano per costruirsi un senso di ciò che accade è il canale visivo, ossia creiamo immagini nella mente di ciò che avviene intorno a noi. Ora quindi potremmo dire che creiamo un ‘film’ della nostra vita rispetto al mondo che ci circonda, selezionando (spesso automaticamente) immagini,suoni, odori (etc) in funzione del nostro modo di ‘vedere’ le cose, delle nostre aspettative.

Allora cos’è ‘real.mente oggettivo’?

Vi è mai capitato di leggere un libro, un romanzo di cui poi è stato realizzato il film cinematografico? Bene, dopo la visione del film, cosa avete pensato? Spesso le persone dicono: “Non era come il libro, hanno cambiato tante cose, è meglio il libro, etc…” A voi è mai capitato? Credo di si… Ora, perchè accade ciò? Proprio come detto prima, il cervello e la mente funzionano per immagini (usiamo anche gli altri sensi ma analizziamo il canale visivo in particolare, vale comunque lo stesso processo di elaborazione anche per gli altri sensi).CIASCUNO di noi si crea le sue immagini del mondo e dunque la propria realtà soggettiva del proprio libro di vita. “Crea” le immagini in base a ciò che si aspetta di vedere.Non possono esistere due persone che assistano allo stesso accadimento (o, per esempio, leggono lo stesso libro) e che provino le stesse emozioni/sensazioni! Indi ognuno è regista unico della propria realtà totalmente soggettiva. E il rifacimento cinematografico del libro che centra? Che proprio ciò che cogliete come differenza tra libro e film è la prova dei nostri, esseri umani pensanti, differenti modi di ‘filmare’ la vita.Durante un rifacimento cinematografico, il regista si è creato mentalmente il suo personale film (che poi ha “cinematografato”) di quello specifico libro con lo stesso processo con cui avete fatto, di quel libro, il vostro personale film.Potrà mai essere ‘uguale’?! Quindi ci sono due registi di una ‘stessa storia scritta’ => due film mentali completamente diversi! Dal momento che l’esperienza è soggettiva ed unica non ci sarà mai un film ‘identico’’ al VOSTRO, proprio perchè il regista di quel film non siete voi ma un’altra persona. Indi le aspettative che l’altro abbia lo stesso film mentale  è innaturale quanto irreale e… a meno di una…

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‘Co-regia’?

Come per il film tratto da un romanzo, così nelle relazioni interpersonali, che siano di coppia o amicizia, ognuno ha un proprio film mentale della situazione e le relative aspettative. E quindi?Quindi ‘proietta’ il suo film, tramite le aspettative, sull’altro. Quindi capita che spesso le persone si facciano propri personali film ma  includendo, spesso erronea.mente, le altre persone come attori di questo proprio personale film, o aspettandosi che recitino determinate parti… senza nemmeno avergli fatto il ‘casting’.Piccolo problema… che forse l’altro non è solo attore partecipante ma è anch’esso, come detto prima, un regista della propria vita proprio come voi? Guarda caso, capita che spesso si conosca una persona, e dopo aver approfondito la conoscenza si affermi: “Non era come me lo aspettavo, è diverso da come avevo pensato. Mi ero illuso.”Tradotto: “Nella mia mente mi ero fatto il mio film di come lui/lei/la situazione fosse poichè così avevo ‘letto’ nel ‘libro’ delle MIA esperienza di vita e così ho proiettato sul Mio schermo mentale”..Indi c’è stato un errore di ‘regia’ a monte..o per meglio dire, nessuno ha partecipato alla scrittura del copione se non voi. E la domanda che vi pongo è…Che dite di una co-regia? Magari partirei da una co-scrittura della sceneggiatura per definire preventivamente i ruoli che ognuno, in modo costruttivo, vuole ricoprire.Per quale motivo includere persone come attori del nostro personale film e non valutare che in una relazione di coppia di qualsiasi natura, i registi, per lo stesso film di vita da realizzare, devono essere tutti i partecipanti al film?Ai ‘registi mentali’ cinefili cedo la riflessione.

Scritto da: Alessandro Pollutri.

La vita che diventa romanzo

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Da cercatore d'oro a scrittore picaresco

Jack London, la vita
che diventa romanzo


di Cecilia Moretti  

Scava fino a non sentirle più, quelle mani callose e piene di geloni. Setaccia la terra scura con gli occhi attenti del predatore, per non lasciarsi sfuggire neanche il più impercettibile bagliore della più sottile pagliuzza. Percorre il letto gelido del Klondike avanti e indietro, senza pace. Vuole l’oro, Jack London. È il 1898, ha 21 anni e cerca la sua fortuna nelle lande candide e deserte dello Yukon, su su, dove il Canada sfiora l’Alaska e dove solo per pochi giorni l’anno il sole ha la forza di sciogliere i ghiacci. Lì Paperon de’ Paperoni ha trovato la pepita “uovo d’anatra” e ha iniziato la sua storia, lì sono accorsi trasognati centinaia e centinaia di uomini che non avevano più niente da perdere, che consideravano meta già l’avventura del viaggio, che volevano tendere una mano al destino, chissà che magari non si ricordasse di loro. Lì, a Dawson City, oltre le montagne, il giovane London cercatore d’oro sceglie una capanna per proteggersi dall’inverno, prende due assi di legno e costruisce la sua scrivania, per fermare su un foglio le parole anche di questa avventura.Non porta altro dal viaggio, niente lingotti o setacci pieni d’oro, ma ancora materiale per i suoi scritti: lettere, articoli, romanzi, racconti, sempre impregnati di vita, la sua. Più picaresca dei libri, più densa di quella di qualsiasi suo protagonista, al punto da sembrare essa stessa una creatura letteraria di lui, la più avventurosa e meglio riuscita. Dalla nascita alla morte, nulla può essere più perfettamente londoniano della sua vita. Flora, sua madre, una ragazza aristocratica ribelle, si dedica allo spiritismo e tenta il suicidio proprio mentre lo aspetta, perché abbandonata dal padre del bambino, un astrologo un po’ giornalista, un po’ avvocato e un po’ ciarlatano, che non lo vorrà riconoscere mai. Riesce a nascere Jack, a San Francisco, e viene allevato da una vecchia schiava nera, prende il cognome del secondo compagno della madre, un buon uomo a cui qualsiasi affare va incredibilmente male e fa di tutto un po’.Vende sottaceti, fa lo strillone di giornali, lavora in una fabbrica di conserve di salmone, è operaio in una centrale termica. E nel frattempo va a scuola, quando se lo può permettere, e divora libri. Legge tutto quello che Ina Coolbrith, la bibliotecaria di Oakland, gli allunga quando, bambino, va a rifugiarsi per qualche ora nella biblioteca comunale, a riposarsi un po’, arrampicato sulle vite degli altri. A 15 anni si fa prestare dalla vecchia tata nera 300 euro e costruisce Razzle Dazzle, una barchetta che ricorda un guscio di noce e che, quando il vento spinge abbastanza, lo porta fino a rubare le ostriche dagli allevamenti nella baia. Si infiamma di passione politica e a 17 anni è in marcia su Washington dalla parte dei disoccupati. A 18 passa un mese in gattabuia, causa vagabondaggio nei pressi delle cascate del Niagara. Va in luna di miele in bicicletta, caccia le foche, frequenta contrabbandieri, beve al saloon del porto, esporta il surf negli Stati Uniti. E intanto viaggia e gira tutto il mondo, con i vestiti laceri che odorano forte di mare e nausea, i capelli biondi scompigliati al vento, in bocca il sapore di terre lontane. Esplora, guarda, scatta foto, prende appunti, ma, soprattutto, riempie la testa di immagini, quelle stesse che pullulano le pagine dei suoi libri. Perché a un certo punto le deve scrivere. E allora capisce che è quella la sua miniera d’oro.Se i cetriolini da mettere nei barattoli a Jack bambino li pagavano 10 centesimi l’ora, a Jack scrittore gli articoli li pagano 10 centesimi a parola, come mai a nessuno prima. Scrive della rivolta dei Boeri e della guerra di Corea, della rivoluzione messicana e del terremoto di San Francisco, pubblica una cinquantina di romanzi e quasi il doppio di racconti e guadagna tanti soldi. Tanti davvero, tanti che bastano a farsi costruire Snark, la barca dei sogni su cui percorrere tutto l’oceano Pacifico insieme con Charmian Kittredge, la ragazza libera e bella che è la sua seconda moglie, ma non tanti che bastano a comprarsi una tregua dalla vita e dalla sua insoddisfazione infinita. Un po’ di pace dai tormenti fecondi ma estenuanti di un’esistenza febbrile, perennemente in bilico tra la materia e il sogno, la sconfitta e il trionfo, sempre sospesa tra gli archetipi ante litteram del superomismo dannunziano e del populismo rivoluzionario di Che Guevara.Incapace a trovar quiete, inutili anche il denaro, il successo, lo spasmodico cambiamento di cielo, è sicuro di voler essere una «superba meteora» piuttosto che un «sonnolento e perseverante pianeta», esattamente come il suo Martin Eden, di esattamente cent'anni fa, smarrito fino a fuggire e a morire dinanzi alla superficialità vacua del successo. Su questa linea cala anche il sipario sulla sua vita, il 22 novembre 1916, quando ha solo 40 anni, quando le ha ormai provate tutte. Muore di sifilide, forse, di uremia, oppure, di overdose di morfina, sembra, per complicazioni respiratorie o intossicazione da medicine o distrutto dall’alcol, dicono. Non si sa neppure se per destino o per scelta. Ma piace pensare che in quel giorno di novembre Jack London, accanto alla sua Charmian, morì per una mortale indigestione di vita.  

La vita è un' opera di teatro

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Ti criticheranno sempre,
parleranno male di te
e sarà difficile che incontri qualcuno
al quale tu possa andare bene come sei.
Quindi: vivi come credi,
fai quello che ti dice il cuore...
La vita è un’opera di teatro
che non ha prove iniziali.
Canta, ridi, balla, ama...
e vivi intensamente ogni momento
della tua vita...
prima che cali il sipario
e l’opera finisca senza applausi....
  
(Charlie Chaplin)

http://2.bp.blogspot.com/_X0fGpZc53AA/S92bt42b8LI/AAAAAAAAABo/bj65vXos-wc/s1600/23297_Charlie_Chaplin_122_80lo.jpg

Il mondo è un teatro...


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Tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori. Essi hanno le loro uscite e le loro entrate. Una stessa persona, nella sua vita, rappresenta parecchie parti, poiché sette età costituiscono gli atti.

William Shakespeare

da A piacer vostro - atto secondo

Sei personaggi in cerca d'autore

 

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Sei personaggi in cerca d'autore

di Luigi Pirandello

Rifiutare una forma non significa però, nel fluire di una vita, trovarne un'altra in cui quietare ( Ah, poter consistere!..) : di qui, la paradossale conclusione per cui è meglio essere personaggi, fissati una volta per tutte dall'autore nei loro tratti, che persone. Il rapporto tra "personaggi" e "persone" è lo stesso che tra l'eternità e l'atrte, della fantasia, e il relativo della vita.
Ma anche la condizione privilegiata di personaggio non è sempre attingibile.E' quanto emerge dal più celebre dei drammi di Piradello,Sei personaggi in cerca d'autore ( 1921).

Sul palcoscenico di un teatro, dove si sta rappresentando un dramma pirandelliano, Il gioco delle Parti, irrompono sei personaggi che , rifiutati dall'autore , cercano qualcuno che li rappresenti sulla scena- che dia loro, quindi, una consistenza-. Fra lo sbigottimento degli attori, in un susseguirsi di interruzioni e di riprese caotiche, ciascuno di loro ( il Padre, la Madre, Il Figlio, la Figliastra, il Giovinetto, la Bambina) racconta il torbido dramma di rapporti familiari, finchè si arriva alla tragedia finale: la Bambina annega in una vasca da bagno e il Giovinetto si spara.
Ma- e qui sta il paradosso- questi fatti potevano essere , ma non sono avvenuti, in quanto ciascuno dei personaggi vive allo stato fluido: l'autore ha rifiutato di dargli forma perché una "forma" perche una "forma" non rispecchierebbe la vita, e sarebbe come ammettere che ognuno di noi è uno, mentre è "tanti, tanti, secondo le possibilità d'essere che sono in noi: uno con questo, uno con quello! Diversissimi!"

L'autore non ascolta dunque le richieste dei personaggi, perché il vivere allo stato fluido rappresenta la misteriosa e tragica condizione esistenziale : che è quanto egli vuole dimostrare nel suo teatro.

Il dramma del rapporto tra vita e forma è così riproposto non come dramma di personana, ma di personaggio. Attori e pubblico non distinguono più tra finzione e realtà: calato il sipario, ci si accorge che l'autore ha sostituito al dramma la dimostrazione dell'impossibilità di rappresentarlo.

E' questa l'unica esperienza del teatro nel teatro, in cui risulta scardinata ogni convenzione scenica, e messo in discussione lo stesso genere teatrale, che è dialogo ed azione. Le parole sono infatti una vuota astrazione, convenzioni che ciascuno intende a modo suo ( "crediamo di intenderci - dice un personaggio - e non ci intendiamo mai ! ") ; e le azioni non servono, in quanto ciascuno di noi non è intero nell'atto che compie. La provocatorietà della pseudo trama , prima del tradizionale epilogo, coinvolge il pubblico in un rapporto dialettico con l'autore, e fa della scena "un luogo di verifica" delle concezioni proposte: il che dava il colpo definitivo a tutto il teatro precedente, e anche al contemporaneo teatro grottesco.
Un filo misterioso lega i personaggi con il loro autore: si forma magicamente quando essi, dal momento in cui sono solo idee, tentano lo scrittore "tante volte, nella malinconia di quel suo scrittoio". In " Sei personaggi in cerca d'autore" questo legame non è riuscito a stringersi. Respinti, rifiutati dopo molte esitazioni, dalla ente di chi doveva dar loro corpo, sei personaggi , dotati come per incanto di vita autonoma, s presentano sul palcoscenico, il luogo naturale della loro unica possibilità di esistenza. Nel momento della loro "materializzazione" nel teatro una compagnia di attori sta provando svogliatamente " Il gioco delle parti" altra commedia di pirandello; e quei misteriosi intrusi chiedono a quei commedianti di rappresentare la loro vicenda almeno una volta, affinché si realizzi compiutamente la loro esistenza di personaggi. Essi propongono un dramma familiare: il Padre, convinto che sua moglie ( la Madre) fosse innamorata di un suo dipendente, ne favorisce l'unione. Poi, segue a distanza la nuova famiglia con sollecitudine e specialmente s'interessa , non visto, alla bambina che nasce, osservandola discretamente nella crescita. Questo nuovo nucleo scompare improvvisamente dalla città, ne perde le tracce e resta solo con il figlio. Morto il poveruomo, la Madre torna in quella città con la ragazza ormai grande, una ragazza e un bambino. Il Padre, che non lo sa incontra la ragazza, la Figliastra, in un bordello: sta per consumarsi una specie di incesto che all'arrivo della Madre scongiura. Poi, tutto precipita: la famigliola rientra nella casa del Padre, ma questo provoca l'ostilità del Figlio su cui tutta l'attenzione si concentra. Ed questo il motivo per cui , incustodita, la bambina affoga in una vasca da bagno e il bambino si spara. E' il dramma di un gruppo di personaggi in crisi che non riescono a comunicare, ognuno con una propria fisionomia abbozzata, che , però, appunto per questo loro "essere personaggio" , non può mutare, a differenza di quanto capita all'uomo la cui vita fluida è soggetta continuamente a cambiamenti. LA commedia non è, però, nella trama, ma nello scoppio dei contrasti tra Padre e Figliastra, tra Madre e Figliastra, tra Figlio e tutti gli altri: ognuno tenta di capire e giustificare la propria realtà, in un caotico accavallarsi di racconti e di voci. Ma il centro del conflitto dialettico è tra il Capocomico della compagnia e i personaggi, il Padre e la Figliastra in particolare. Quando si tratta , infatti, di far recitare gli attori veri, i personaggi divengono insofferenti e protestano continuamente; non si riconoscono in quei professionisti, le scene mancano sempre di qualche particolare "indispensabile" . Il problema è che tra i due gruppi corre una differenza abissale: i personaggi sono maschere rigide e bloccate nel ruolo che rappresentano; negli attori , che sono uomini e donne, scorre prima di tutto la vita, elemento continuamente ed individualmente mutabile. La presunzione del teatro tradizionale di rappresentare la vita viene scardinata da un procedimento a rovescio. E' il teatro ad entrare nella vita, e a dimostrare quell'impossibilità. Si contrappongono e si intrecciano la verità dell'attimo e la verità eterna, al punto che non è più possibile distinguere tra realtà e finzione.